Eh! La vita/Sanguedolce
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SANGUEDOLCE
— E vi chiamate Sanguedolce! — esclamò il Pretore.
— Per colpa di mio nonno — rispose il vecchio contadino così rimproverato. — Ora però voglio diventare Sangueamaro, eccellenza.
— Lasciate stare l’eccellenza; non sono ministro.
— E’ un galantuomo, un uomo di giustizia.
— Non tutti la pensano come voi in questo paese.
— Paesaccio, eccellenza! Che mi consiglia dunque?...
— Niente. Vi domando. Insistete nella querela?
— Se la ritirassi, penserebbero che ho avuto paura; ed io non ho paura di nessuno, neppure del diavolo. Di Gesù Cristo soltanto, che non son degno di nominarlo; di lui soltanto ho paura!
— Gesù Cristo ha detto: perdonate ai vostri nemici.
— Quando lo disse? Ai suoi tempi. Oggi il mondo è cangiato.
— Insomma, insistete?
— Insisto, eccellenza, sì!
— Vi saluto.
Sanguedolce portò una mano al mento, abbassò il capo e stette un momento a riflettere.
— In caso... — poi disse, esitante, — chi paga le spese?
— Le pago io — rispose il Pretore ridendo.
— Che c’entra voscenza?... Non ci mancherebbe altro!
— Per levar di mezzo ogni difficoltà. Il matrimonio di vostro nipote... Bravo giovine! Gli voglio bene...
— Non me ne parli, signor Pretore! Non deve farsi; e non si farà finchè campo io. Mio nipote è più che un figlio per me; e appunto per questo... E se quella stregaccia della matrigna della ragazza...
— Che interesse può avere? Non è sua figlia.
— L’interesse di levarsela di casa. La dia a chi vuole; a mio nipote no. Vedremo chi la vince. Io intanto la mando in galera.
— Bisogna prima sapere...
— Come? Può vomitarmi addosso tanti vituperi e passarsela liscia?
— Dar querela ad una donna, via!
— Ha la lingua lunga, troppo lunga!
— Dovreste ammirarla. Per matrigna, è un’eccezione.
— Apparentemente, eccellenza! Troppo zelo, eccellenza! Ci dev’essere qualcosa sotto... E poichè mio nipote è cieco dalla passione, voglio aver quattro paia d’occhi io, se pure bastano!.... Ma prima la mando in galera la stregaccia! Con quei testimoni...
— Testimoni! Lo sapete come usa qui; con un par di lire c’è gente che giurerebbe....
— Ormai si sa chi sono i falsi testimoni di mestiere: Faccia-di-morto, Ciaula, Nino Pricocu, Virtuoazza... Ma dunque uno non può più aver fatta giustizia? Deve farsela con le proprie mani?
— E vi chiamate Sanguedolce! — tornò ad esclamare il Pretore.
Voleva fare il cattivo, ma era proprio Sanguedolce. E per ciò nessuno sapeva spiegarsi la sua violenta opposizione al matrimonio del nipote con la figlia di Lagnusazzu. Bella, giovanissima, con discreta dote, massaia, di quelle che sanno far tutto: filare, tessere, cucinare, impastare il pane, tutto, insomma, come oggi se ne trovan poche, perchè fin le figlie di zappatori vogliono parere signorine — così gli dicevano conoscenti ed amici — dove poteva trovarla una meglio di Tana La Mira? Sarebbe stato un’infamia dire: — la figlia di Lagnusazzu — che poi era infingardo unicamente se si trattava di fare un po’ di bene al prossimo; per questo ingrassava da sembrare una botte.
Sanguedolce, appena qualcuno cominciava a parlargli del matrimonio del nipote, lo guardava in viso con certi occhi da fulminarlo, se fosse stato possibile; poi, secondo le persone, o rispondeva una parolaccia o faceva una furiosa voltata di spalle, o pure, per esempio: — col notaio Mancuso, col canonico Spano, col cavaliere Dipietro — supplicava a mani giunte:
— Mi lascino stare, per carità! Credono che sia un capriccio? Un dispetto? So io perchè! So io perchè! Mi lascino stare!
Infatti da qualche tempo in qua, soltanto il canonico Spano si permetteva di dirgli con quella sua voce lemme lemme:
— Lo facciamo, sì o no, questo matrimonio? Venite a confessarvi; è un pezzo che non vi accostate al santo tribunale della penitenza.
— Voglio mettere insieme un bel mucchio di peccati e scaricarmene tutt’a una volta... Ma di quella cosa non ne parliamo, signor canonico!
E, finalmente, neppur lui gli disse più niente.
Ma, ecco, una mattina — era domenica e Sanguedolce si preparava ad uscir di casa per andare a sentir la messa — ecco Luciano, il nipote, che entra in camera di lui, gli si pianta davanti rispettoso ma risoluto, con le sopracciglia aggrottate e le labbra aride che quasi gli impedivano di formar le parole.
— Che c’è? — domandò Sanguedolce.
— C’è, zio, che io chiedo di sapere per qual ragione vi opponete al mio matrimonio con Tana La Mira. Voglio mettermi il cuore in pace. Per me.... o lei, o lei! Devo perdervi di rispetto? Siete stato il mio secondo padre.
— Che ti figuri? Che io mi impaurisca di cotest’aria minacciosa?
— Ma che v’ha fatto quella povera figlia? Perchè ce l’avete con lei?
— Non l’ho con nessuno. Dico di no, e no dev’essere. Se fosse vivo tuo padre, e fosse lui a dir di no che faresti?
— Mio padre certamente mi spiegherebbe: No... per questo e per questo. E sarebbe finita. Almeno saprei!
— Ringrazia Dio che tuo padre non sia vivo!...
— Vo a domandarglielo nell’altro mondo, nell’inferno o nel paradiso, dov’è.
— Sai la via?
— La so, zio!
Sanguedolce non potè ridere a questa strana risposta del nipote; ma fece la sua solita spallucciata pur vedendolo andar via gesticolando con le mani nei capelli come un disperato.
Durante la messa, però, invece di recitare il rosario, tenne la corona avvolta attorno a una mano e si mise a parlare internamente, rivolto al gran crocifisso dell’altare dove il prete celebrava:
— Dovete pensarci voi, Gesù crocifisso! Levategliela voi di mente! Non deve accadere! Non deve accadere! Libera nos domine! Io mi opporrò finchè potrò... Dovete pensarci voi, Gesù crocifisso! Non ve l’ha detto il mio povero fratello? Non ve l’ha confessato anche... lei, quando sono arrivati al vostro cospetto per essere giudicati?... Già, voi, Signore, che vedevate, che sapevate tutto ve li siete chiamati in cielo tutti e due... E volete lasciarmi addosso questo peso? Pensateci voi, Gesù crocifisso!
E restò là a guardare il Crocifisso tutto piagato, tutto insanguinato, con la testa coronata di spine abbandonata su la spalla destra, quasi attendesse da esso una parola, un cenno di risposta, che lo assicurasse: Ci penserò io!
Si scosse tutt’a un tratto, maravigliato di non essersi accorto che la messa era terminata e che il sagrestano aveva già spento i ceri dell’altare.
Ah! Fu certo un’ispirazione di Gesù crocifisso quella che lo spinse ad entrare nella stalla dalla porta interna! Diè un urlo alla vista del nipote che penzolava dalla corda legata a un trave, dando gli ultimi tratti agitando le gambe e le braccia. Montare su lo sgabello rovesciato per terra, cavar di tasca il coltello, tagliar la fune e cascar giù assieme col disgraziato fu l’affar di un momento.
— Chi mi diè la forza di liberarmi del suo peso — raccontava Sanguedolce, poco dopo, alla gente accorsa ai suoi gridi — e di slegargli il nodo della corda attorno al collo?
Non osava di rimproverare il nipote che, steso sul letto, respirava ancora affannosamente. Poi, quando lo vide in piedi, con le lagrime agli occhi pel dispetto di essere stato salvato, gli disse soltanto:
— Non dubitare. Vado ora stesso da Lagnusazzu e torno sùbito con la risposta.
E andò difilato, quasi di corsa.
— E’ vero? — gli domandò Lagnusazzu.
— Verissimo. Voi... che ne dite?
Gli tremava la voce, aveva gli occhi smarriti.
— Per me...
— Acconsentite dunque?... Con la coscienza tranquilla?
— Se Tana dice di sì...
— Lo sapete bene che dice di sì!... Parlo per voi.
— Io?... Li benedico con tutte e due le mani. E anche sua matrigna... E se volete far presto, tanto piacere.
— Dice che siete voi che non volete — intervenne la seconda moglie di Lagnusazzu.
— Giacchè vostro marito... ha la coscienza tranquilla!...
— Ma che discorso è questo? — fece Lagnusazzu — spiegatevi...
— Niente. Lo avete visto: è mancato poco che mio nipote non si ammazzasse. Vuol dire... che c’è la volontà di Dio!
E portò la lieta risposta.
Da quel giorno in poi però Sanguedolce parve diventato un altro. Aveva detto al nipote:
— Non voglio mescolarmi di niente; fa’ tu, a modo tuo, disponi tu. Tu sei padrone del tuo e del mio. Da oggi in poi, per questi ultimi pochi mesi, non voglio più essere tutore. Alle faccende di campagna baderò io. Tu fa lo zitu1.
Luciano era così felice che non si accorgeva della grande amarezza che c’era nelle parole e nel tono della voce di suo zio. Non si accorgeva dell’aria trasognata del povero vecchio, che gesticolava e borbottava senza far capire che cosa gli passasse pel capo; e pareva che cascasse dalle nuvole se qualcuno gli domandava:
— Che avete, zi’ Sanguedolce?
— Che volete che abbia? La vecchiaia che trascino.
Infatti pareva invecchiato tutt’a una volta. Prima, aveva il motto allegro, la barzelletta pronta. Durante la mietitura o l’abbachiatura delle olive, durante la vendemmia, zi’ Sanguedolce rallegrava gli uomini e le raccoglitrici con certe sue storielle maliziose che facevano sbellicar dalle risa. Ora, o stava muto, con gli occhi fissi, sbalorditi, quasi vedesse chi sa che brutte cose, o scoteva il capo e borbottava parole inintelligibili di risposta a qualcuno che lo interrogasse non visto.
Si cominciò a spargere la voce che a zi’ Sanguedolce avesse dato di volta il cervello. Il canonico Spano, incontrato Luciano gli disse:
— Tu hai la testa alla zita, e non ti curi di tuo zio. E’ venuto da me questa mattina. Mi ha fatto pietà. — Che abbiamo, compare Sanguedolce? Non vi dispiaccia se vi chiamo così. — Abbiamo... che quando c’è la volontà di Dio è inutile opporsi; avviene quel che deve avvenire... E’ vero, signor canonico? — Certamente, compare. — Anche nelle cose storte, è vero, signor canonico? — Non sono storte, se Dio le permette; sembrano storte a noi. — Sarà!... Sarà!... Ma io dico che sono storte. Stiamo a vedere, fino all’ultimo... Ci penserà lui a rimediare... Ero venuto per confessarmi. Stiamo a vedere! — A vedere che cosa? — Parlava come se le parole gli uscissero di bocca senza che egli comprendesse quel che diceva. Mi ha fatto pietà.
— Che posso farci, signor canonico? E’ l’età, forse... E poi ce l’ha con me per via del mio matrimonio. Perchè? Mi ci perdo. Ho fin sospettato... Quando si è vecchi... Avrebbe voluto sposarla lui?
Il canonico lo fissò, colpito.
— Tutto può darsi... Mi ha fatto pena, ti dico!
Vedendo che lo zio non gli accennava più alle nozze imminenti, Luciano, quasi per provarlo, gli annunziava:
— Oggi siamo stati al Municipio per la richiesta.
— Quando c’è la volontà di Dio!...
— Oggi se n’è detto in chiesa la seconda volta.
— Quando c’è la volontà di Dio!...
Rispondeva con una specie di ringhio, alzando le spalle.
— Ah, zio! Mi fate il malaugurio! — gli disse Luciano col pianto nella gola. — Ci sposiamo domani!
Quella sera, tardi, il canonico Spano che diceva in camera l’uffizio — ed era in maniche di camicia con lo zucchetto in testa, dal gran scirocco — vide arrivare lo zi’ Sanguedolce, torbido in viso, che gli si buttò in ginocchio dal lato del seggiolone a bracciuoli.
— Voglio confessarmi!
— Tanta fretta?
— Confiteo Dio onnipotente...
— Chiudete almeno quell’uscio.
— Non importa. Dunque... sigillo di confessione. Prima fu mio fratello che mi disse: — Questo figlio mi è cascato dal cielo! — Non ne sapeva niente, poveretto!... Voleva fare, voleva dire.... Ammazzare, squartare.... Fu prudente; e il dolore gli fece groppo allo stomaco: ne morì.
— Lasciamo andare — lo interruppe il canonico. — Veniamo ai vostri peccati.
— Poi — continuò Sanguedolce, con la voce che gli tremava — fu lei, sua moglie, due mesi dopo, in punto di morte: — Badate, cognato! Luciano è figlio di... Lagnusazzu. Badate, cognato!... Peccato grande! L’ho scontato. — Ecco perchè!... Ecco perchè!...
E scattò in piedi, guardandosi attorno, atterrito che qualcuno avesse potuto udirlo.
— Non c’è più, dunque, Gesù Cristo lassù? No, non c’è più?
— Non bestemmiate!
Il canonico non sapeva che credere. Quel pazzo diceva la verità o ripeteva una orrenda fissazione? Tentò di calmarlo, di convincerlo che s’ingannava. Ma Sanguedolce rispose soltanto:
— Glielo dica lei, nella messa, a Gesù Cristo. Che ci fa dunque là, in croce, su l’altare?
— Non bestemmiate!
Il vecchio era scappato via, barcollante, senza neppur salutarlo.
— Che misera cosa è la nostra mente! — esclamò il canonico Spano, rinvenendo dallo stupore.
E riaperse il breviario.
⁂
Gli sposi, i parenti e il corteo degli amici, in attesa che il parroco uscisse di sagrestia, si comunicarono sottovoce, maravigliati:
— C’è zi’ Sanguedolce! C’è zi’ Sanguedolce!
Lo avevano scoperto, rannicchiato dietro una colonna.
Luciano, commosso, andò a prenderlo per una mano, dicendogli:
— Grazie, zio!
Gli amici lo circondarono, Lagnusazzu, col pancione sporgente dalla giacca nuova di panno blu, lo invitò a sedersi accanto a lui, ripetendogli: — Bravo! Bravo! — sodisfattissimo.
Sanguedolce agitava lentamente la testa, senza dire una sola parola, come se avesse un meccanismo nel collo.
E si lasciò condurre a braccetto in casa della sposa.
Tutti mangiavano dolci, càlia2, bevevano vino di Vittoria, facevano brindisi: lui, zitto, con gli sguardi fissi su gli sposi quasi ne sorvegliasse ogni movimento. Quando però vide Luciano che, abbracciata la sposa stava per baciarla al cospetto di tutti, scattò come una belva e si lanciò su la giovine, urlando: No! No! E’ sacrilegio!... Dio non vuole!
Nella gran confusione, credettero che Tana fosse svenuta dallo spavento... Un fiotto di sangue le usciva dalla gola squarciata.
Sanguedolce aveva buttato via il coltello e gridava a Lagnusazzu:
— Infame! Tu lo sapevi, tu lo sapevi, tu lo sapevi!... Fratello e sorella! E li hai fatti sposare!
E sùbito si batteva violentemente con una mano su la bocca, imprecando a se stesso:
— Ah! Doveva cascarmi la lingua, doveva!