Edgar Poe/Parte nona
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Edgar Poe è, anche, un grande scrittore umorista. Ma, per comprender bene l’ampiezza della sua arte, in questo campo, occorre chiarir qualche equivoco. Molti battezzano per umorismo le acrobatiche pagliacciate degli scrittori parigini così detti "gai"; altri, in buona fede, parlan di un’arte scettica, cioè di una cosa assurda, poichè un temperamento scettico potrà sbozzolarsi nel giornalismo o nella critica o nella letteratura inferiore, non mai nell’arte vera. Cerchiamo, dunque, di raccapezzarci, immaginando d’esser comodamente sprofondati in un poltrona di teatro, la nuca abbandonata in posa languida sullo schienale. Il sipario si apre: e, con esso, si schiude una magnifica occasione per mettere alla prova e conoscere, infine, il nostro proprio temperamento. Se quelle brave persone, che si muovono e discorrono fra scenarii di tela dipinta, appariranno ai nostri sguardi come creature viventi di un’esistenza non fittizia, se le passioni, ch’esse esprimono, ci daranno una certezza di realtà, potremo affermare, senza tema di smentite, che il nostro è un temperamento lirico. Se, al contrario, gli occhi discerneranno la buca del suggeritore e la sottil linea d’ombra, che divide la parrucca dalla fronte degli attori, recitiamo pure il confiteor e dichiariamoci scettici. Ma, attenti a non cadere in un inganno! L’anima lirica e la lagrimuccia, caduta giù da due oneste ciglia, non sono ancora poesia, come non è affatto umorismo il sorriso, che ha sfiorato le labbra mentre il degno Shylock fingeva di strapparsi i peli di una barba prolissa quanto posticcia. E dunque? E dunque, lo scetticismo diventerà arte solo se sarà tramutato, da gelido sterpeto di raziocinii, in viva fiamma di sentimenti. E se l’azione scenica e lo stesso nostro scetticismo saranno da noi sentiti come un’allegra beffa, la nostra penna emulerà quelle di Aristofane e di Rabelais; e se la beffa ci darà la profonda amarezza, che si prova guardando, dopo un roseo sogno, la bigia realtà, diventeremo un Luciano o un Voltaire; e se, infine, un urlo di sacra collera proromperà dal nostro cuore deluso, potremo esser certi di diventare, presto o tardi, un Giovenale o uno Swift.
Ma c’è un temperamento in cui, come l’olio sull’acqua, lo scetticismo galleggia sovra un fondo lirico: e i due elementi, fusi assieme, creano la suprema arte umorista, dal Don Chisciotte al Sogno di una notte di mezza estate, dal Viaggio sentimentale di Sterne a Orione di Ercole Luigi Morselli.
Edgar Poe è maestro in tutte queste varie forme di umorismo. Acrobatici giuochi di risate appaiono le sue burlesche novelle La settimana con tre domeniche, Gli occhiali, Sei tu il colpevole. Una melanconia amara, velata fra trame di sorrisi, inspira Il filosofo Bon Bon, Miss Psiche Zenobia e una gran parte dei Marginalia. E un’ira, mal rattenuta sotto la maschera sghignazzante, arde in novelle come Quattro bestie in una, Il diavolo nel campanile e Discussioncella con una mummia.
Ma Poe trova in altre opere la maggior espressione del proprio umorismo di lirico. Egli è come un viandante, che proceda nell’afa meridiana. Attorno al pellegrino la terra, riarsa, apre innumerevoli bocche, mostruosamente scontorte, per tentare un respiro multiplo, che allevii il soffocamento, o, forse, per chieder pietà: e le erbe son fulvo pelame, rastrellato e schiacciato contro il suolo dal pettine dell’estate; e le piante mostrano il desolato scheletro dei rami scricchiolanti sotto la stretta del sole. Il viandante, quasi abbacinato, si avanza. Ha gli sbarrati occhi della paura, ha i tesi nervi dell’incubo. Che cosa riluce dovunque, nel cielo e sui campi? È sabbia o è polvere d’oro? E questo esasperato stridìo, che si diffonde dovunque, nell’alto e nel basso, è frinir di cicale o è la stessa ebra voce dell’ora cocente? Ma ecco. Da un invisibile gigantesco vulcano traboccan, laggiù, nembi tenebrosi e scaglian violenti la lor tetra ovatta a riempire dapprima l’orizzonte lontano e, poi, tutta l’affocata cupola di quel frammento di mondo. Nel buio, striato da lampi, le cicale tacciono: ma le bocche, aperte nella terra, si dilatano ancor più, sempre più mostruose, a implorare un sollievo per l’inestinguibile sete.
L’uragano s’è dileguato. Che ampio respiro, nei polmoni del cielo! E con quale spasimo voluttuoso i rami degli alberi e le erbe e le zolle placan l’interna arsura imbevendosi a poco a poco di fresche gocce di pioggia! Anche il viandante prova la dolcezza di quel refrigerio. Non è, egli, una piccola parte del vasto mondo? E le sue carni inaridite non hanno bisogno, per rivivere al pari delle piante e delle zolle e dell’erbe, di un lavacro che le disseti e deterga gli occhi dall’ombre della paura e plachi i nervi, tesi dall’incubo? Troppo profonda è, tuttavia, la dolcezza, e troppo intenso è lo spasimo voluttuoso. L’uomo sente che ogni cosa, lì intorno, rinasce: e gli par d’essere il terriccio e lo sterpo che, dopo aver provato il tormento plumbeo della sterilità, si abbandonano, ora, alla gioia di rivivere.
Troppa gioia! Troppo spasimo! Chi, nelle lande arsicce dello scetticismo, riceva il possente lavacro della lirica, non può dar sfocio allo spasimo e alla gioia se non con una delirante risata. La stessa risata, che stride sulle labbra di Hop-Frog, mentre la sua fiaccola folle brucia e ravvisa il plumbeo monarca.