Edgar Poe/Parte ottava
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Ma l’anima del poeta è come l’anima del fanciullo. Anche i bimbi ascoltano avidamente le narrazioni di misteri impersonati in evanescenti figure di fate, in orridi ceffi di orchi, e poi, fra le tenebre, nella solitudine del lettuccio, rabbrividiscono a ogni soffio di vento, che scuota le imposte delle finestre, a ogni bussare di tarlo nei mobili. Un’anima molto sensibile, che indaghi il Mistero, non può sottrarsi alle insidie del terrore. Ma qui, in questo morboso campo di creazione artistica, ci troviamo, appunto, di fronte alla maggiore, alla più intima originalità di Edgar Poe.
Egli è terribilmente moderno. La sua opera rispecchia i tempi nostri in ciò, ch’essi hanno di tragicamente tenebroso, nella spaventevole conseguenza di una vita troppo movimentata e troppo intensamente vissuta: la nevrosi. Poe è il pioniere di questa insondabile malattia, che tormenta l’umanità moderna, raffinata e in pari tempo logorata dalla cultura enciclopedica, dal progresso materiale e dalle febbrili preoccupazioni di un’epoca sempre più assetata di scoperte scientifiche e pratiche, le quali possano sempre maggiormente agevolare e, quindi, accelerare il ritmo dell’esistenza. Per questo, l’arte di Poe dominerà la letteratura modernissima e influirà sovra i poeti sommi, da Baudelaire a Swinburne. Prima di lui, lasciati da banda gli scrittori mediocri, come Anna Radcliffe e Lewis, un solo autore aveva tentato di penetrare nel segreto dell’anima moderna, irrequieta e nevrotica: Hoffmann. E se volessimo istituire un esame critico fra le opere dell’americano e del tedesco, troveremmo il ciclo delle novelle più ossessionate dell’uno, da Morella alla Rovina della casa Usher, preconizzato nel Violino di Cremona e nel Maggiorasco dell’altro, e la stessa teoria del demone della perversità, inspiratrice del Cuore rivelatore e del Gatto nero, già formulata nella Chiesa dei gesuiti.
Ma, in arte, non si tratta tanto di derivazioni, quanto di affinità spirituali. E la catena d’influssi, che unisce Hoffmann a Poe e Poe a Leopardi, non foggia un albero genealogico, ma addita uno sboccio di rami fratelli sul grande tronco di un’epoca storica. Inoltre, Hoffmann e Poe, ugualmente sinceri, vivevano in ugual modo i tormenti e i terrori, descritti nelle novelle. E l’uno e l’altro avevan, del pari, bisogno di dolci mani femminee, che calmassero il lor spasimo interno. E, a traverso l’opera letteraria dell’uno e dell’altro, noi assistiamo del pari ai sobbalzi e alle vibrazioni di anime irrimediabilmente sofferenti. Bagliori vividi solcan le pagine, arroventandole; singhiozzi di cherubini in esilio si elevan da sconosciuti abissi, accompagnando i tremuli suoni di un’arpa, toccata dall’alito del dolore. E il fantasma di noi stessi, evocato da labbra ignote, fugge tacito fra muraglie di tenebre, cennandoci perchè lo seguiamo.
L’originalità di Edgar Poe è indiscutibile. E, tuttavia, fu completamente ignorata dagli americani di quei tempi, nè valse a evitare al poeta maledetto la taccia di plagiario: vano tentativo di pigmei desiderosi di dar lo sgambetto a un gigante. Perchè, questo? Ecco. Sotto la mia finestra, una sera, è passato, cantando, un gruppo di avvinazzati. Cantavano tutti, con molta foga, convinti di possedere, nella gola, un tesoro: ma le voci eran rauche, i versi sbagliati e le stonature continue. D’improvviso, gli ubriachi tacquero. Dall’ombre del viale, un’altra voce, solitaria, si sviluppava in un canto pieno di dolcezza e di musicalità vera. Gli ubriachi, per qualche minuto, ascoltarono, quasi sopraffatti dallo sbalordimento: poi, non volendo tollerare più oltre l’ingiuria, con fischi, beffe e risate soffocarono quella voce proterva, che aveva osato interrompere la loro melopea di Zulù. Ugual cosa accade in ogni manifestazione della vita. I passerotti, riuniti in crocchio pettegolo tra le fronde degli alberi, seguono con sguardo sprezzante l’altissimo volo dell’aquila; e le lumache, drizzando le lor viscide corna, inturgidite come i bargigli di un galletto iroso, ridono a crepapancia delle corse folli dei cervi. Non c’è proprio niente da fare! La mediocrità ama la mediocrità e scrolla le spalle innanzi alle creature d’eccezione, non tanto perchè offesa dalla loro superiorità, quanto perchè non riesce a comprenderle. Nell’esistenza quotidiana, l’uomo generoso e pensoso è irremissibilmente travolto dalla bituminosa marea degli egoismi e del vaniloquio: e, nel mondo dell’arte, l’uomo di genio, per raggiungere la vittoria, deve lottare molto più a lungo e ben più duramente dell’uomo semplicemente d’ingegno. Perchè i savii dovrebbero aiutare un pazzo ad aprire, nelle boscaglie, un sentiero nuovo, mentre c’è la strada maestra ampia, comoda e soleggiata? Ma i savii, così pensando, dimenticano che le penombre della foresta offron ristoro e gioia agli occhi ed all’anima e che la strada maestra, invece, offre solo polvere e fango.
Il pubblico americano tollerò e, qualche volta, forse amò Poe per le sue virtù americane, per lo spirito mistificatore e paradossale e per la forza d’analisi e di calcolo, non certo per la sua opera veramente originale, dolorante di nevrosi e inspirata dal desiderio di guardare, faccia a faccia, il Mistero e assillata dall’inseparabil compagno del mistero: il terrore.
Il terrore: vera fonte dell’arte più personale di Poe. Tuttavia, questo stato di terrore è, dapprima, considerato al pari del mistero stesso, che lo produsse: cioè, come un oggetto d’indagine e una materia di raffigurazione artistica. Ed ecco scaturire dalla penna dello scrittore le numerose novelle, ancora relativamente oggettive, in cui il brivido è ancora fuori delle carni e dell’anima di chi racconta: Il re Peste, orrendo quadro di un bagordo d’ubriaconi delinquenti fra l’imperversare del morbo letale; Il sistema del dottor Catrame e del professor Piuma, ove l’impazzito direttore di un manicomio convita un ignaro viandante a un banchetto di mentecatti; il Manoscritto trovato in una bottiglia, che ci trasporta sovra un vascello fantasma e tra un equipaggio di morti; Il seppellimento prematuro, con lo spasimo dell’uomo che si sveglia, o crede, entro la bara; Il pozzo e il pendolo, col delirante terrore di una creatura, condannata dall’inquisizione di Spagna al più raffinati tormenti spirituali; La maschera della Morte Rossa, col folle carnasciale nel palazzo del principe Prospero, interrotto dall’apparire della purpurea maschera della morte più ripugnante.
Ma ben soggettivo, ben scaturito dallo stesso allucinato cervello di Poe è il terrore, espresso nelle sue migliori novelle. È Poe, veramente Poe il protagonista del Convegno e di Silenzio e di Ombra e di Morella e di Berenice e di Ligeia e della Rovina della casa Usher: novelle, che rappresentano tragedie interiori, stati d’animo sotto l’ossessione della grande nevrosi. E L’uomo delle folle non è, forse, Poe, Poe in persona, che segue sè stesso, e inutilmente, per scuoprire la segreta faccia del proprio tormento? E William Wilson, l’opera più soggettiva fra tutte, non è l’esasperata raffigurazione della tragedia, che squassa l’anima dello scrittore? In William Wilson, però, l’ossessione diventa così intensa e così intollerabile, da dar luogo a un violento gesto liberatore, a un impulso omicida che sopprime, sì, l’incubo, ma nel medesimo istante sopprime anche la terrorizzata vittima di questo. Siamo giunti, così, alle novelle più parossistiche, nel buio regno del demone della perversità. Il terrore si è trasformato in orrore e la tragedia intima, tuffandosi nel sangue, è divenuta tragedia esterna.
Poe, anche qui, non dimentica d’essere un autore americano. Stimolato dal desiderio di analizzare e di rendere evidenti, reali, quasi palpabili i fantasmi della sua anima allucinata, egli s’addentra a spiegare in che consista questa perversità, a definire con precisione quasi scientifica questa forma di nevrosi come uno stimolo prepotente e invincibile, che costringe a compiere un’azione appunto e solo perchè quest’azione non dovrebbe esser compiuta. Ma il gesto impulsivo trova la propria condanna nella stessa nevrosi, da cui fu inspirato. I protagonisti di Cuore rivelatore e del Demone della perversità, eseguito con fredde cautele il delitto, pur sapendosi al riparo da ogni sospettoso sguardo e da ogni pericolo sono inesorabilmente spinti dalla loro eccitata sensibilità a confessare, urlando, la colpa. Ma, se questa confessione espiatrice manchi, lo spaventevole miagolio del Gatto nero, di dentro all’introvabile sepolcro scavato nella muraglia, interviene come la voce stessa, eschilea, del Fato.