Don Garzia (Alfieri, 1946)/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Cosimo, Diego, Piero, Garzia.
veder mi giova quanto in voi sia il senno,
or, che a prova vi udrò. Ma, pria ch’io v’apra
il mio pensier, ciascun di voi mi giuri
dir vero, e asconder sempre nel profondo
del cor l’arcano, che a svelarvi imprendo.
Diego Per questa spada io ’l giuro.
Piero Ed io pel padre.
Garzia Sovra il mio onore io ’l giuro.
Cosimo Udite or dunque. —
La mia causa, è la vostra: in voi non entra
odio, né amor, né affetti, altri che i miei.
V’estimo io tali; onde consiglio nullo
miglior mi fia del vostro. Or non vi narro,
perché i leggeri abitator di Flora
incresciuti mi sien; perché a piú queta
stanza in queste di Pisa amate mura
mi ritraessi; a ognun di voi giá è noto.
Con man piú certa e non men duro morso,
io di quí stringo al par l’instabil, fello
popol maligno, che obbedir mal vuole,
e che imperar mal sa; né dubbio è omai
il servir suo: ma appien securo in trono
spesso incontrar giá gli avi nostri; e tutto
gridami in cor, che a passeggera calma,
a fallace sereno io non mi affidi.
Domi i piú de’ nemici, o spersi, o spenti,
fero ne veggio or rimanermi un solo:
m’è di sangue congiunto, in vista amico;
mi segue ognora (ancor ch’io mai nol curi)
modesto ai detti, ossequíoso in atto:
ma, nell’intimo cor, di rabbia pieno,
di rei disegni...
Diego Ed è?
Cosimo L’empio Salviati. —
Benché congiunto, ei sí; bench’ei pur nasca
dal fratel di mia madre, egli è non meno
nemico a noi, che giá il suo padre il fosse.
Quel fero vecchio, (ricordarlo udiste)
che libertá fingea, perch’era troppo
da lui lontan, benché il bramasse, il seggio:
quei, che attentossi, il dí che al soglio assunto
io dal senato e in un dal popol era,
sconsigliarmi dal regno. I suoi molti anni,
e di mia madre il pianto, a lui perdono
di sua stolta baldanza ottener poscia:
ma non cosí questo impugnato scettro
perdonava egli a me. Che pur potea
un vecchio imbelle? udia di morte i messi,
e giá presso alla tomba, il velen rio
che invano in core ei racchiudea, nel core
tutto versò dell’empio figlio. Or, certo
io son, che figlio di sprezzato padre,
feroce ei m’odia; e, quel ch’è peggio, ei tace:
quindi è d’uopo ch’io vegli. Era a sue mire
ostacol forse la mia madre in vita;
or che cessò, piú da indugiar non parmi:
tutte occupar densi a costui le vie,
e il migliore e il piú ratto a un tanto effetto,
liberamente ognun di voi mi mostri.
Diego Padre, e signor, non che di noi, di tutti;
che poss’io dirti di ragion di regno,
che tu nol sappi? Assai de’ reo chiamarsi,
parmi, colui che al suo signor non piace:
che fia quei che, abborrito, anco lo abborre?
Ha congiunti chi regna? Or, poiché al prence
la sorte amici non concede mai,
che falsi, od empj; almen non dee nemici
ei tollerar, né aperti mai, né occulti.
Tranne esempio da lui, che il tosco scettro
tenne anzi te; quell’Alessandro, quello,
che a tradimento trafitto cadea;
ei de’ congiunti a diffidar t’insegni,
piú che d’ogni altro. Amistá finta, e lunga
servitú finta, e affinitade, apriro
infame strada al traditor Lorenzo
d’immerger entro al regio petto il ferro.
Ben sapea di costui l’animo iniquo
il prence in parte, e diffidar non volle:
anzi lo accolse, e il fea de’ suoi, sí ch’egli
al fin lo uccise. — Ah! gli odj altrui previeni:
dolcezza, in chi può non usarla, apponsi
a timor solo; e assai velar chi regna
de’ il suo timor; che il piú geloso arcano
di stato egli è: guai se si scopre: tace
tosto l’altrui terrore: e allor, che avviene? —
Pera Salviati; è il parer mio: ma pera
apertamente. Egli ti offende, e a giusta
morte tu il danni, ma, non far che oscura
timida nube i maestosi raggi
del tuo potere illimitato adombri.
Garzia Se a prence in soglio nato, e all’ombra queta
di propizia fortuna indi cresciuto
padre, tu a lungo or non mi udresti. Dura,
diffidi, vana, e perigliosa impresa
fia ’l rattemprar signor, che mai d’avversa
sorte non vide il minaccioso aspetto.
Ma, Cosmo, tu, che i tuoi giovenili anni
lungi dal trono, e dalle sue speranze,
fra i sospetti vivesti; or trafugato
dalla madre sul Tebro, or d’Adria in riva,
or del Ligure alpestre agli ermi scogli;
tu, che dell’odio poderoso altrui
provasti il peso, ora benigno orecchio
prestami, prego. — Alla medicea stirpe,
da piú lustri, a vicenda, arte, fortuna,
forza, e favor, dier signoril possanza;
cui piú splendor, nerbo, e certezza poscia
tu aggiungesti ogni dí. Tu sai, che invano
l’uccisor d’Alessandro asilo e scampo
sperò trovare in libera contrada.
Tuo brando il giunse entro Vinegia; ei giacque
inulto lá, dove il poter si vanta
sol di libere leggi: il Leon fero
uccider vide infra gli artigli suoi
chi troppo stava in suo ruggir securo:
videlo, e tacque: e il tuo terribil nome
fea d’Italia tremar l’un mare e l’altro.
Che brami or piú? senza nemici regno?
Ciò non fu mai: spegnerli tutti? e ferro
havvi da tanto? Agli avi tuoi pon mente:
qual finor d’essi sen moria tranquillo,
possente, e amato? il solo Cosmo; quegli
ch’ebbe poter, quanto glien diero; e a cui
piú assai ne aggiunse, il men volerne. Or, mira
gli altri: Giulian trafitto; a stento salvo
il pro Lorenzo: espulso Piero: ucciso
Alessandro. Eppur, mai non fur costoro
quanto è lubrica al trono infida base
lo sparso sangue. — Ucciderai Salviati,
forse non reo: nemici altri verranno:
fian spenti? ed altri insorgeranno. — Il brando
del diffidar, la insazíabil punta
ritorce al fin contro chi l’elsa impugna.
Deh! pria che or scenda, il tieni in alto alquanto:
ferito ch’abbia, ei piú non resta. A un tempo,
e a chi ti spiace, e alla tua fama, o padre,
deh! tu perdona.
Diego Ei da me ognor dissente.
Piero Io, minor d’anni, e di consiglio quindi,
parlerò pur, poiché il comanda il padre.
Prode qual è, Diego parlò; né biasmo
giá di Garzía gli accenti, ancorch’io spieghi
parer tutt’altro. Io, di Salviati al solo
nome, che a me suona delitto, io fremo.
Altro Salviati a tradimento ardiva
il ferro alzar sovra Lorenzo nostro.
Padre, sol duolmi, che nemico troppo
apertamente di costui mostrato
finor ti sei: non, perché a lui piú umano
mostrandoti, cangiar quel doppio core
tu mai potessi; ma, talor men biasmo
acquista al prence il trucidar gli amici,
che il punire i nemici. — Una, fra tante
stragi, onde mai di Tiberio la rabbia
sazia non fu, sol una a Roma piacque.
Vero o mentito di Sejan foss’egli
il congiurar; pubblica gioja, e risa,
e canti, e scherni, le sue esequie furo.
Amico al prence, a ogni altro in odio: ei cadde
quindi abborrito, invendicato, e vile. —
Vuoi tu spento Salviati, e salvo a un tratto
da invidia te? ciò che non festi, imprendi.
promovil; campo a largo errar gli dai:
premialo; ingrato e traditor fia tosto.
Cosí vendetta colorir si puote
di giusta pena; in un cosí s’ottiene
di prence il frutto, e d’uman sire il nome.
Cosimo Col tuo consiglio anco si regna, o Piero;
ma, piú regale io quel di Diego estimo.
Senza atterrire od ingannar, tenersi
soggetto l’uom, ben chi sel crede è stolto.
Poco bensí di un figlio, e men di un prence
ravviso i sensi in te, Garzía: tu parli
a Cosmo re del cittadino Cosmo?
Tu vuoi, ch’io in trono il reo destin rimembri? —
Ed io ’l vo’ far, col prevenir d’avversa
fortuna i colpi. — Or, qual linguaggio è il tuo?
Nomi il timor, prudenza? umano chiami,
l’esser debole e vile? e allor ch’io chieggio
come il mortal nemico mio si spenga,
com’io deggia salvarlo a me tu insegni?
Diego Garzía minore, e ad obbedirmi nato,
maraviglia non fia se al trono pari
l’animo in se non serra; e s’ei private
virtú professa, o finge...
Garzia Una per sempre
fia la virtude; e in trono, e fuor, sola una.
Richiesto, io dissi il pensier mio: se un’alma
qual mostri, è d’uopo ad aver regno, io godo
di non attender regno: e, s’io pur nacqui,
come tu il dici, all’obbedire, io voglio
pur obbedir, ma a tal, che imperar sappia...
Cosimo E son quell’io, finora: e tu, rimembra,
ch’io so farmi obbedire: ama e rispetta,
quanto me, Diego. — In voi, gli animi vostri,
non consiglio, cercai. Vidi, conobbi,
udii: mi basta. — A voi, nei detti ed opre,
e nei pensieri, io solo omai son norma.
SCENA SECONDA
Diego, Piero, Garzia.
scerner tra noi. — Ma pur, non duolmi al padre
l’aver schiuso i miei sensi: un po’ men ratto
al labro forse, ciò che in cor si serra,
correr dovrebbe; ma finor quest’arte
la mia non è; né piú l’apprendo omai.
Diego Ch’altro manca piú a Cosmo? entro sua reggia,
tra i proprj figli alto un censore ei trova,
che a regnare gl’insegna.
Garzia Or, che paventi?
Piú di me sempre gli sarai tu accetto.
Il piú gradito al re fia quei, che porre
suo consiglio e ragion piú sa nel brando.
Piero Sdegno fra voi trascorrer dee tant’oltre,
perché dispari è la sentenza? Io pure
da voi dissento; e non, per ciò, men v’amo.
Fratelli, figli e sudditi d’un padre
noi siam pur tutti: or via...
Garzia Pensi a sua posta
ciascun di noi: non cerco io lode; e biasmo
non reco altrui. Dico bensí, che tutto
porterem noi del pubblic’odio il grave
terribil peso, o sia che Cosmo elegga
forza adoprare, o finzíon: da questa
lo sprezzo altrui, l’ira dell’altra nasce;
la vendetta da entrambe.
Diego Oh! saggio, e grande,
certo sei tu: moderator ti piaccia
seder di nostra giovinezza. — Or, quando
tacerai tu? Ben noto eri giá al padre,
da lui giá in pregio, e qual tel merti, avuto.
Va; se in tenebre godi, oscuro vivi:
non ci far di te almen spiacevol ombra.
Garzia Ciò che splendor tu chiami, infamia il chiamo. —
Ma, a voi non toglie il mio parlar la pace,
che in voi non è: pace assai mal si merca
colle pubbliche grida, e mal col sangue
dell’innocente cittadino. Io nasco
stranier fra voi; ma, poi ch’io pur vi nasco,
non mai sperate ch’io a voi taccia il vero.
Piero No, tu non sei, Garzía, nemico al padre:
dunque, perché di chi l’offende amico?
Garzia Del giusto, amico; e di null’altro. Io parlo
a voi cosí; ma, con gli estranei, taccio.
Io creder vo’, che un sol signor piú giovi,
dove ei stia pur del natural diritto
entro il confin; ma tirannia?... l’abborro:
e assai l’adopra il padre mio, pur troppo!
Piú del suo onor, che di sua possa, io sempre
tenero fui: di vero amore io l’amo.
Se nulla in lui giammai varran miei preghi,
tutti a scemar la tirannia fien volti.
Diego Ed io, (se valgo) a vie piú accrescer sempre
sacro poter, che un temerario ardisce
tacciar d’ingiusto, io volgerò pur tutti
gli sforzi miei.
Garzia Degna è di te la impresa.
Diego Mi oltraggi tu? Ben ti farò...
Piero T’arresta:
oh ciel! riponi il brando...
Garzia Il brando trarre
lasciagli, o Piero. Ei vuol di se dar saggio
degno di lui. Contro il german la spada,
sublime indizio è di futuro regno.
Piero Deh! ti raffrena... E tu, deh taci!...
Diego O cangia
tuo stile, o ch’io...
fa di ragion lo sdegno. Io non mi adiro,
io, cui ragion sol muove.
Diego All’opre tardo,
piú che al parlar, forse ti senti alquanto;
quindi sdegno non hai.
Garzia Piú assai che all’opre,
tardo al temer son io.
Diego Chi ’l sa?
Garzia Il mio brando; —
sapresti tu,... s’io tuo fratel non fossi.
SCENA TERZA
Diego, Piero.
noi fummo ognora...
Piero Placati; ei non merta
l’ira tua generosa. Udisti ardire?
Non che arrossirne, udisti, come altero
nel tradimento ei gode?
Diego Un dí vedrai,
se il suo stolido orgoglio a lui fia tolto:
lascia ch’io regni, e tosto...
Piero A te, per dritto,
si aspetta il trono, è ver; ma, non a caso
parla Garzía cosí. Ben so, che il padre
ogni suo affetto, ogni sua speme ha posto
in te; di te men care ha le pupille;
ma, ver l’occaso ei giá degli anni inchina.
Sai, come langue in senil cor l’amore;
e quanto mal dalle donnesche fraudi
canuta etá si schermi. Egli è Garzía
della madre il diletto: ella n’è cieca;
e noi poco ama, il sai...
si debbe a me; né tor mel puote il padre.
Anco mel tolga, a ripigliarlo io basto.
Ben ci conosce il padre.
Piero È ver; ma l’arte...
Diego Ai vili dono io l’arte. Il so, che troppo
egli è caro alla madre. Al par vorrei
che a Cosmo il fosse; e che men cal? non temo,
non invidio, non odio il fratel mio.
Piero Ma, tu non sai, qual reo disegno asconda
entro il suo cor Garzía...
Diego Gli altrui disegni
indago io mai?
Piero Ma ignoti al padre...
Diego E voglio
riferirglieli forse? In me ciò fora
piú assai vile, che in altri: or che fra noi
torte parole corsero, parrebbe
astio, o vendetta, ogni mio detto. Il padre
conosco; e so, quanto abbia forza in esso
d’ira l’impeto primo: a trista prova
meglio è nol porre. Ove Garzía diventi
peggior per se, tutto n’abbia egli il danno.
Ma, s’egli offender me piú omai si attenta,
spero che dir non ei potrá, ch’io chiesto
di lui ragione ad altri abbia, che a lui.