Don Candeloro e C.i/Epopea spicciola

Epopea spicciola

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Papa Sisto L'opera del Divino Amore


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EPOPEA SPICCIOLA.

[p. 131 modifica]Ecco come lo zio Lio raccontava poi quella faccenda:

— Mancava dove andare ad ammazzarsi? Nossignore, proprio qui; chè per dieci miglia in giro ne fecero piangere degli occhi! E anche loro ne seminarono delle ossa a far concime, lungo la strada, fra le siepi, dietro i muri, uomini e bestie mietuti a fasci, talchè un mese dopo, a dar un colpo di zappa, ne saltavano ancora fuori, ossa di cristiani! Figuratevi i campi e gli orti! E la povera gente del paese che non c’entrava per nulla in quella lite, e non voleva entrarci. Alcuni vi lasciarono la pelle, infine — per difendere la sua roba. — La roba e la vita, perse!

Basta. Molti se l’erano data a gambe il giorno prima, a buon conto, come sentivano: — Vengono! [p. 132 modifica]— Gli svizzeri! — La cavalleria! — E chi non gli era bastato l’animo di piantar subito casa e paese, all’ultimo momento disse pure: — Meglio il danno che la pelle — e via: uomini, donne, bestie, quello che si poteva mettere in salvo insomma; le vecchie col rosario in mano.

Io non avevo nessuno al mondo, soltanto quei quattro sassi al sole, la casa, l’orto, lì proprio sulla strada, con tanti soldati che passavano — chi li diceva dei nostri — chi di quegli altri — ciascuno che voleva mangiarsi il mondo — certe facce! Cosa avreste fatto? Rimasi a guardia della mia casa, lì accanto, seduto sul muricciolo. — A svignarsela, poi, c’è sempre tempo — pensai. Intanto passa un’ora, ne passano due. I nostri avevano tirato dei cannoni sin lassù sulla collina, in mezzo alle vigne. Figuratevi il danno! A un tratto giunge uno a cavallo, tutto arrabbiato, che pareva volesse mangiarsi il mondo anche lui — uno di quelli che insegnano a farsi ammazzare agli altri — e si mette a gridare da lontano. Allora uomini, cannoni, muli, via a rompicollo dall’altra parte; povere vigne! Però stavolta quello del cavallo aveva pure la testa fasciata; segno che si picchiavano diggià, in qualche luogo. Però non si [p. 133 modifica]vedeva nulla ancora, dalle nostre parti. Il paese quieto, la via deserta, la città che pareva tranquilla anch’essa, come se non fosse fatto suo, sdraiata in riva al mare, laggiù, e le fregate che andavano e venivano innanzi e indietro, fumando. — Questa è l’ora d’andare a mangiare un boccone, — dico io, dall’alba che stavo piantato lì come un minchione.

In quella si mette a tuonare, lassù nella montagna. Uno, due, tre, infine un temporale a ciel sereno, in quella bella giornata di Venerdì Santo che dovevano succedere tanti peccati. — Buono! Addio voglia di mangiare un boccone! Lo stomaco se n’era già bell’e sceso in fondo alle calcagna, con quella solfa. A buon conto è meglio correre a casa, e stare a vedere come si mettono le cose da dietro l’uscio. Scendo quatto quatto dal muricciolo, e filo carponi lungo la siepe. Le Proscimo allora mi vedono passare; la vecchia apre un po’ di finestra, e si mette a strillare: — O zio Lio — Cosa succede? — Per amor di Dio! — C’era anche la figliuola, Nunzia, dietro la madre, più morta che viva anche lei; tutt’e due che non sapevano far altro: — Signore! — Madonna! — Ahimè! — Bene — dico io — chiudetevi in casa. Stiamo a vedere. [p. 134 modifica]

Mi chiudo in casa mia anch’io, e stiamo a vedere. Niente. Non passa un cane. La pace degli angeli da queste parti. Soltanto lassù che si divertono sempre a cannonate. — Buon pro vi faccia! — Tanto, qui il sangue non arriva, quando vi sarete accoppati tutti. — Poteva essere mezzogiorno, a occhio, chè il sagrestano non si arrischiava certo sul campanile quella volta. Quasi quasi m’arrischio a mettere il naso fuori di nuovo, quand’ecco, crac, il tetto dei Minola che rovina, e poi un altro, lì a due passi. Le palle ci piovono sui tetti, adesso!

Che vedeste! Chi è rimasto a fare il bravo va a cacciarsi sotto il letto. Altri che s’erano rintanati nelle cantine o in qualche buco, saltano fuori all’impazzata. Pianti, grida, un baccano d’inferno. Io andavo correndo di qua e di là per la casa, senza sapere dove ficcarmi, talmente ogni colpo me lo sentivo fra capo e collo. — Aiuto! — Cristiani! — gridavano le Proscimo. C’è cristiani e turchi in quel momento? Maledette donne che ce li tirano addosso, ora! Eccoli infatti che arrivano, prima dieci, poi venti, poi, che vi dico? un fiume. Soldati e poi soldati che si vedono passare dal buco della chiave, per più di un’ora, a piedi, a cavallo, con certi [p. 135 modifica]cannoni di qua a là. Povera la città che se li vede capitare addosso!

Intanto, se Dio vuole, di qui se ne vanno, a poco a poco; chè quando pareva fossero passati tutti, ne giungevano altri ancora, a frotte, alla spicciolata, zoppi, sfiniti, strascinandosi dietro il fucile e le gambe, con certe facce nere e arse. E a un tratto ecco che si mettono a bussare in mala maniera dalle Proscimo, alla mia porta, qua e là alle poche case lungo la strada, volendo da bere, coi sassi, coi fucili, e minacciano di sfondare ogni cosa. Al vedere che lo fanno davvero, dove non rispondono subito, aprono le Proscimo, apro io pure, e ci mettiamo alla fune del pozzo. Acqua all’uno, acqua all’altro; ne vengono sempre! Bisogna vedere come vi si buttavano, colla faccia, colle mani, coi berretti, e spinte, e busse, una ressa indiavolata. Delle facce, Dio ne scampi, che avevano gli occhi come brace. E alcuni si lasciavano cadere giù in fascio col fucile dove c’era un po’ d’ombrìa. Altri si cacciavano nelle case e mettevano le mani da per tutto. — Ah le mani! — Questo poi! Sì e no. — Tira e molla. — Si cercava di persuaderli colle buone e colle cattive: — Caporale! — Che fate? — Siamo poveri [p. 136 modifica]campagnoli! — Noialtri non c’entriamo colla guerra. — A chi dite! Come parlare al muro. E a capire ciò che dicevano loro, peggio, con quel linguaggio di bestie che hanno. Andare a far sentir ragione alle bestie! La Proscimo che ci s’era provata con uno che le sembrava più faccia da cristiano, un ragazzo addirittura, biondo come l’oro, fine e bianco di pelle che sembrava una donna, cercava di addomesticarlo narrandogli guai e miserie — Sono una povera vedova — con due orfani sulle spalle! — Ci avrete la mamma anche vossignoria, laggiù al vostro paese!... — Sissignora che quello invece le adocchia la figliuola, e tirava a farsi intendere colle mani, giacchè colla lingua non si capivano nè lei, nè lui. L’uno peggio dell’altro, in una parola. Gente venuta da casa del diavolo ad ammazzare e farsi ammazzare per un tozzo di pane. Dopo che ebbero bevuta l’acqua, vollero bere il vino, e dopo vollero il pane, e dopo volevano anche la ragazza. Ah, le donne, poi! Qui non si usa! Pazienza la roba, e tutto il resto. Ma anche le donne adesso? proprio sotto il mostaccio? Allora era meglio pigliare lo schioppo anche noi, e come finiva, finiva. Vero ch’erano in tanti, e facevano tonnina nel villaggio intero! La Nunzia, però — una ragazza [p. 137 modifica]onesta — quel discorso sotto gli occhi della madre e dei vicini, per giunta.... — Urli, graffi, morsi, si difendeva come una leonessa. E la vecchia! Avete visto una chioccia, che è una chioccia, se la toccano nei pulcini? Insomma, sul più bello salta in mezzo anche il ragazzo dei Minola, che stava abbeverando quei porci lui pure — con quel bel costrutto. — Salta in mezzo, e si mette a dar botte da orbi con un pezzo di legno che trovò lì nel cortile — o che gli premesse la ragazza, vicini come erano, oppure che gli sia andato il sangue agli occhi finalmente, dopo tante soperchierie. Botte da orbi, a chi piglia, piglia.

Ma chi le pigliò peggio fummo noi poveri diavoli del paese. Le case arse, i poderi distrutti, il ragazzo Minola con una baionetta nella pancia, la mamma Proscimo ridotta povera e pazza, e Nunzia con un figliuolo che non sa di chi sia, adesso.