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Epopea spicciola 133

deva nulla ancora, dalle nostre parti. Il paese quieto, la via deserta, la città che pareva tranquilla anch’essa, come se non fosse fatto suo, sdraiata in riva al mare, laggiù, e le fregate che andavano e venivano innanzi e indietro, fumando. — Questa è l’ora d’andare a mangiare un boccone, — dico io, dall’alba che stavo piantato lì come un minchione.

In quella si mette a tuonare, lassù nella montagna. Uno, due, tre, infine un temporale a ciel sereno, in quella bella giornata di Venerdì Santo che dovevano succedere tanti peccati. — Buono! Addio voglia di mangiare un boccone! Lo stomaco se n’era già bell’e sceso in fondo alle calcagna, con quella solfa. A buon conto è meglio correre a casa, e stare a vedere come si mettono le cose da dietro l’uscio. Scendo quatto quatto dal muricciolo, e filo carponi lungo la siepe. Le Proscimo allora mi vedono passare; la vecchia apre un po’ di finestra, e si mette a strillare: — O zio Lio — Cosa succede? — Per amor di Dio! — C’era anche la figliuola, Nunzia, dietro la madre, più morta che viva anche lei; tutt’e due che non sapevano far altro: — Signore! — Madonna! — Ahimè! — Bene — dico io — chiudetevi in casa. Stiamo a vedere.