Schiarimento sull'indole dei dolori e dei piaceri
Il tempo che passiamo con piacere ci sembra breve, e quello in cui soffriamo dolore lunghissimo. Il tempo relativamente a noi altro non è che la successione delle nostre sensazioni. Se un uomo potesse per degli anni di séguito restare assorbito nell’estasi di una sola idea, egli non si accorgerebbe che sia trascorso tempo. Ciò posto, se le ore del dolore ci sembrano lunghe, convien dire che molte e replicate e fitte sensazioni siansi provate durante quello spazio di tempo; onde riflettendo noi alla serie per la quale passammo, giudichiamo essere trascorso piú tempo che il pendolo non ci indica; e se le ore del piacere ci sembran brevi, convien pur dire che il tempo trascorso non fosse variato da replicate scosse e sensazioni. Quindi apparisce esser il tempo del piacere una cessazione d’azione, uno stato uniforme dell’animo, e perciò giudicarsi breve, perché egli è una quantità negativa, ed un accostamento al non essere; laddove il dolore è una quantità di azione positiva, e nella rapida cessazione di lei consiste il piacere. Ecco perché altresí il piacere per sua indole debb’esser breve, né può protraersi oltre un corto spazio; laddove il dolore può essere tanto lungo e durevole quanto la vita che ci può togliere; perché una azione positiva sopra di noi non ha altri confini di tempo che la nostra sensibilità; invece una mera cessazione rapida di dolore non può allungarsi senza continuo discapito della rapidità sua, e annientata questa, s’annienta il piacere, come si è detto di sopra.
Quando è mai che l’uomo corra piú avidamente in traccia dei piaceri? Ciò è nel punto in cui egli è piú infelice e soffre i mali maggiori. Dopo di un tremuoto, di un grande incendio, nel tempo della pestilenza, l’uomo naturalmente punto da mille oggetti di miseria propria e altrui si getta alla piú libertina sfrenatezza; quei riguardi che tenevano nella moderazione il cittadino in tempi migliori, nel disastro, nella folla de’ mali, sono troppo deboli fili; non è sopportabile lo stato continuato e atroce dei dolori morali; si rompono i ritegni, e si corre clamorosamente dietro un piacere qualunque purché s’ottenga una tregua ai mali con una rapida cessazion di dolore. Quanto è piú violento il dolore, e quanto ne è piú rapida la cessazione, tanto piú intenso ne sarà sempre il piacere. I vecchi generali induriti nella militare disciplina, e insensibili quasi alla gioia, si vedono dopo d’una battaglia vinta, inondati di lacrime di allegrezza; sono in quel momento i piú sensibili, i piú cordiali uomini del mondo. I dolorosissimi sentimenti che assalgono il cuore d’ognuno al combattere, la natura che internamente grida, l’onore che forzatamente compone il nostro aspetto, la fortuna dello stato nostro, sentimenti violentissimi che ci stringono, scompaiono al momento che il nemico fugge e quella rapida cessazione fa palpitare anco le fibre piú incallite. Da una pericolosa burrasca un soffio celere di vento se ti salvi in un porto sicuro, vedrai i piú insensibili uomini marinareschi abbracciarsi l’un l’altro con trasporto di gioia, gridare, cantare, abbandonarsi alla delizia cagionata dalla cessazione rapida dei mali. Non mi si troverà un solo dolor fisico o morale, la di cui rapida cessazione, non sia un piacere. Non mi si troverà un solo piacer fisico ovvero morale, del quale sicuramente si possa dire non essere questo cagionato da una rapida cessazion di dolore, o fisico o morale o innominato. Ecco ridotti con ciò i fenomeni della sensibilità a un solo principio, cioé alla fuga del dolore, giacché l’amor del piacere si risolve in una fuga rapida del dolore, e cosí i due elementi della sensibilità nostra accennati all’introduzione di questo discorso, si risolvono in un principio solo, la fuga, come si è detto, del dolore; e dipendendo il dolor fisico dalla lacerazione e il dolor morale dal timore, eccoci ai due ultimi termini che immediatamente toccano la nebbia sacra del nostro essere e che ci additano però i due mezzi che producono il nostro movimento.
Fra i misteri della fisica deve riporsi la elasticità. Una molla di fino acciaio, stassene immobile sin tanto che non venga compressa: il mistero della sensibilità vi ha molta rassomiglianza: l’uomo privo di sensazioni rimane parimenti immobile; comprimilo, addoloralo, ei si rannicchia in sé stesso e si move. Se la compressione è passeggera e tenue, la molla rimbalzando se ne libera e nel primo slancio si dilata anche oltre il limite in cui prima trovavasi. Cosí la sensibilità. Se il dolore sia moderato e passeggero al cessare di esso la gioia sembra che la dilati e la estenda anche quasi fuor di sé: il dolore è quasi un raggruppamento, una condensazione; ed è espansiva, e sembra grandeggiare la gioia. Comprimi la molla con eccessivo peso, ella perderà l’elasticità, o sarà infranta: opprimi l’uomo con eccessivo dolore, o lo renderai stupido, o lo ucciderai. Togli alla molla la compressione per gradi insensibili, e ritorna allo stato primiero senza rimbalzo: toglimi insensibilmente il dolore, e giungo alla tranquillità senza piacere. Assoggetta la molla a un peso uniforme e lasciala per molto tempo compressa immobilmente, la elasticità sarà diminuita, e non sarà mai piú quella di prima: aggrava l’uomo di un dolore diuturno e uniforme, non riacquista piú la squisita sensibilità di prima, col lungo tratto l’uomo s’indurisce ai mali, la sensibilità s’incallisce e cade nella indolenza o nella disperazione.