Discorso sull'indole del piacere e del dolore/XII

Di alcuni dolori e piaceri di opinione

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XI XIII

Ho accennato poco fa che i sensi nostri vengono modificati dalle usanze, e che dall’esempio e dalla educazione impariamo a dimostrar dolore o piacere talvolta per convenzione. Né parlo io di que’ sociali uffici che per condiscendenza urbana ci portano a mostrarci sensibili ad oggetti che non agiscono sopra del nostro animo: il che facciamo conoscendolo e volendolo; ma parlo di quelle illusioni che ingannano noi medesimi e ci fanno esclamare, quasi che fossimo addolorati, o piacevolmente mossi, allorché veramente non lo siamo, e buonamente crediamo di esserlo, non già perché sentiamo, ma perché siamo avvezzi a mostrarci sensibili in quella guisa. Una distonazione clamorosa fa contorcere l’appassionato per la musica, e lo fa dolorosamente sentire: lo crede egli stesso; un bel trillo granito e mordente lo tocca deliziosamente, cosí dice, e lo crede. Io non ho trascurato questa bell’arte; l’amo, ed ho un orecchio sensibile; mostro le stesse apparenze; ma dubito assai, analizzando me stesso lontano dall’armonia, se veramente io provi allora il dolore e il piacere che mi immagino. Questi due modi se potessero cagionare un dolore ed un piacere ne vedremmo qualche traccia anche negli uomini incolti o educati ad una cultura diversa dalla nostra. Un Inglese, un Olandese deliziosamente sorbiscono il thé, giudicano delle minime differenze, gustano il giusto grado di forza, di volatile, di odoroso di quella bevanda che noi italiani beviamo soltanto per consiglio del medico con somma svogliatezza; siamo noi insensibili, ovvero s’ingannano essi credendo di sentire ciò che non sentono? L’avere sino dalla piú tenera età osservato che le persone da noi credute piú intelligenti mostravano dispiacere per una corda che distoni, l’averne piú volte sentito il rimprovero noi stessi, colla lunga serie degli atti ripetuti non può forse associare con una coesione durevole queste due idee, distonazione e dolore? Associate che siano perché non ne mostreremmo noi gl’indizi anche ad animo pacato? Chi potrà mai decidere se allora provi l’uomo il dolore che mostra? Lo decideranno i pochi che preferiscono la verità alla opinione, che si occupano de’ movimenti del loro animo, e cercano di scacciare l’illusione che penetra sino entro i piú profondi ripostigli del cuore. Quanto mai sono alcuni piaceri indigeni d’un regno, e affatto diverrebbero insulsi col trasporto! Il Cinese ti dipinge la sua Venere con una immensa fronte, con due occhietti schiacciati, un naso maccato e largo, un ventre enorme: eccoti la piú voluttuosa donna per lui: s’inganna egli, ovvero s’ingannò quel Greco incomparabile che scolpí la Venere Medicea? Io non parlo sull’idea del bello, ma su quella del piacere che gli uomini in nazioni diverse collocano sopra diversi oggetti. Gli antichi trovavano della delizia nell’odore della rosa; ora le persone piú raffinate dicono di trovare disgustose quelle emanazioni. Un triclinio servito colla delicatezza di Attico, ora moverebbe lo stomaco a nausea; il Falerno si raccoglie anche in questo secolo, lo troviamo insipida e grossa bevanda, e le vivande impastate di mele sarebbero postposte al mero pane. Un voluttuoso Mussulmano s’annoia alla nostra musica, ai nostri spettacoli e prova ribrezzo de’ nostri cibi; noi partiamo colla fame dalla mensa degli Ottomani, che mischiano zucchero, ambra, e muschio nelle vivande, e fuggiamo la melanconia de’ loro concenti musicali, ai quali essi svengono per delizia. Fra i soli Francesi e noi che disparità di opinione non v’è per la musica vocale! l’uno trova una sensazione grata, dove l’altro la trova dolorosa. Alcuni Turchi di maggiore distinzione fatti prigionieri dai Russi nell’ultima guerra furono onorevolmente scortati a Pietroburgo, ove quella sovrana voleva che mirando da vicino la sua umanità e lo splendore di sua corte, tornassero poi a darne un’idea nella loro patria. Portò la sua cura l’imperatrice oltre l’alloggio ricco e agiato, sino a destinar loro una loggia al teatro; ivi né la musica, né il ballo, né il prestigio delle decorazioni e dell’inusitato spettacolo poterono mai ottenere dal loro volto un cenno di piacere; tristi, svogliati, godevano nel momento solo in cui finiva. L’ufficiale destinato a servir loro d’interprete fece loro sentire quanto ospitale fosse l’accoglienza che si faceva ai nemici, pensando a rendere ameno e profittevole il tempo stesso della loro prigionia. "Convien bene piegarci e obbedire quando siam presi", cosí rispose il primo di essi che credeva una pena e uno scorno l’essere cosí condotti in pubblico; e il sorriso apparve sui loro volti, quando udirono che era ad essi libero il non venire, e di questa libertà profittarono, né mai piú vennero al teatro. I veri dolori e piaceri fisici non sono tanto variati, e sono quelli che sempre e in ogni paese cagionano dolore o piacere all’uomo sanamente organizzato. Non si dà dolor fisico, senza lacerazione; e qual lacerazione cagionerà mai nell’orecchio uno stromento discorde, un errore di lingua, un endecasillabo sgraziato? Il compositore di musica, il grammatico, il poeta credono di soffrirne dolore; ed io credo che non lo soffrano, e che per imitazione altrui dapprima, poi per abitudine, ne mostrino i segni, credendosi essi medesimi addolorati; e per convincermene ho osservato che né il canto gregoriano, né alcuni inni composti ne’ secoli meno colti cagionano dolore al musico, al poeta, al grammatico che gli ascolta. De’ piaceri fisici di opinione per lo contrario io credo che siano sentiti veramente, perché veramente producono delle rapide cessazioni di dolore: non è poca consolazione il poter dire a noi medesimi: "Sono un buono e delicato conoscitore". Il continuo timore di valer poco che sta nel fondo del cuore dell’uomo incivilito è una sorgente perenne di questi piaceri; un lampo che ce lo scuota, e che rapidamente ce ne storni la dolorosa vista, è un piacere. L’educazione ci forma, per dir cosí, nuovi sensi: un fanciullo non sa che gli odori possano cagionar dolore né piacere: indifferente prova i grati e disgustosi senza dar segno di alcun sentimento, a meno che non diano una scossa capace di formare una lacerazione negli organi dell’olfatto o della respirazione: il selvaggio egualmente, e il sibarita al primo fiuto distingue l’ambra, la tuberosa, il muschio, l’essenza di rose di Persia, rifiuta un’essenza oleosa, sviene accostandosi a una traspirazione volgare. L’occhio d’un fanciullo e quello d’un uomo rozzo rimirano colla tranquillità e disattenzione medesima, una facciata del Palladio, e un edificio di struttura capricciosa, che impropriamente chiamiamo gotica: il conoscitore delle belle arti crede di provare ad una vista il dolore e nell’altra sente un piacere, perché cessa rapidamente qualche dolore innominato in lui, e singolarmente il timore di non valer molto perché scopre qualche nuova combinazione che confusamente sentiva di non poter trovare, o per altri moltissimi e sottilissimi dolori preparati sempre nello stato di società, ai quali quella vista ha dato un rapido ammorzamento. L’uomo incivilito per l’istesso principio anche nella società trova il tuono della voce di uno dolce e piacevole, e duro e ingrato quello d’un altro: la voce d’una donna talvolta seduce e desta la sensibilità del cuore per un non so che di velato e sensibile che ella annunzia; il Caraibo non se n’è avveduto mai. Alla cena un elegante Europeo di questi tempi preferirà i vini del Reno e della Borgogna agli altri; il meno raffinato cercherà una bevanda meno acida e che conservi di piú il sapore del frutto; dico un elegante Europeo di questi tempi, perché è verosimile assai che i nostri posteri trattino con noi come facciamo noi co’ nostri antenati, e che ci compiangano per le nostre delizie nella musica, nella mensa, e in tutti i piaceri nostri di opinione, come facciamo noi della verdea, della malvasia, del Corelli, del Bernini, e di quanto formò il raffinamento degli avi nostri. Una dimostrazione cospicua di questa verità, che nell’uomo artificiale si creano moltissimi dolori e piaceri di opinione, ce la somministra l’antica Roma tanto avida dello spettacolo de’ gladiatori. Le vergini, le matrone, i fanciulli romani si affollavano all’anfiteatro, e avidamente godevano nel mirare piú uomini che col pugnale in mano si battevano a morte; li volevano veder nudi per meglio osservare il ferro acuto che doveva forarli; li volevano ben pasciuti perché l’adipe istesso rendendo piú lento lo sgorgo del sangue riusciva lo spettacolo della morte piú prolungato; si assaporava la grazia della positura in cui sapeva rendersi pittoresco il morire, e il gladiatore si applaudiva dagli astanti perché agonizzasse con leggiadria. Nelle mense medesime piú festose, mentre coricati i Romani epicurei ponevano pausa al cibo, venivano i gladiatori a ricolmare la voluttà de’ convitati; e le mense grondanti umano sangue, e coperte di murene e greci vini, e i singhiozzi de’ moribondi, frammischiati alle festevoli sinfonie, cagionavano le delizie e il delicato raffinamento de’ piaceri. Troppo è noto il fatto, ed è pur noto che somma rusticità allora si reputava dai Romani se mai per annunziare che taluno era morto si fosse detto obiit, o simile espressione, dovendosi usare la piú mite e dire vixit quasi che il ricordare a voce la morte naturale d’un uomo potesse essere dolorosa cosa ad un popolo che con giubilo la mirava eseguita con violenza e atrocità. Egli è certo che se ai tempi nostri nel Colosséo si rappresentassero queste carneficine, non che le tenere vergini e le donne e i giovani, ma gli uomini ancora meno sensibili ne proverebbero un dolore, e il dolore e la lacerazione interna cagionata dalla compassione giugnerebbero al grado di portare molti degli spettatori allo stato della malattia. Io credo che a misura che l’uomo è piú rozzo ha bisogno di oggetti piú violenti per godere di uno spettacolo; e all’altra estremità pure dell’artificioso raffinamento torna ad avere lo stesso bisogno, perché conviene adoperare un colpo piú energico per conciliarci l’attenzione d’un essere difficilmente sensibile, quanto d’un essere molto occupato delle proprie idee.