Se nella vita siano piú i dolori overo i piaceri
Sono adunque piú i mali, o i beni in questa vita? La somma totale de’ dolori è ella eguale, maggiore, ovvero minore della somma totale de’ piaceri? Ogni uomo prova egli una porzione uguale di bene e male? Su di tali questioni trattate ingegnosamente da vari illustri italiani all’occasione del libro del signor di Maupertuis, io ardirò dire quello che ne sento, e quanto parmi scaturire dai principi già indicati. V’è chi osservò non essere due quantità paragonabili dolore e piacere, e non potersi mai esattamente trovare una di queste due serie di sensazioni che sia uguale o doppia o tripla dell’altra. In fatti dammi un piacere che esattamente valga un determinato dolore? La mente umana non ha mezzi onde graduarli, né abbiamo veruna macchina che serva di misura, come i termometri, i pendoli, i palmi, le once ci fanno paragonare i gradi di calore, il tempo, l’estensione, i pesi ecc. Ciò non ostante nella pratica delle nostre azioni noi facciamo tacitamente paragoni continui fra il male e il bene, fra il dolore e il piacere. L’ambizioso, l’innamorato, l’avaro, il vendicativo quanti mali non affrontano, quante sensazioni dolorose spontaneamente non iscelgono, perché giudicano praticamente che il piacere che se ne promettono sarà maggiore del male che son disposti a soffrire per ottenerlo! Anche gli uomini piú pacati, e non mossi da forte passione scelgono sempre fra il dolore e il piacere, e ne fanno continuo calcolo di paragone. L’uscir di casa con un tempo cattivo, l’attraversare un lungo cammino a piedi, l’uscir di buon’ora da letto ove mollemente ti giaceresti, il differire a cibarti ecc., sono piccoli dolori, ma però lo sono; e ogni uomo li giudica una quantità minore del piacere che avrà d’aver visitato un amico, d’avere esattamente adempiuto agli obblighi dello stato, d’aver usata urbanità e compiacenza ecc. Se adunque nella pratica l’uomo paragona continuamente i dolori e i piaceri, convien dire che sieno due quantità prossimamente paragonabili. Ogni azione nostra si assomiglia a una compra: si dà il denaro per avere una cosa: il privarsi del danaro per sé è un male; ma quando compriamo, giudichiamo che è un bene maggiore di questo male la cosa che ricerchiamo. In ogni condizione in cui sia l’uomo, anche sotto al trono, è costretto a fare una quantità di azioni penose, incomode, dolorose per acquistarsi i piaceri. Questo calcolo l’uomo lo fa abitualmente.
Ciò posto, siccome di sopra ho detto, il piacere non essendo che una rapida cessazione di dolore, non può in conseguenza essere maggiore giammai della quantità del dolore, la di cui cessazione non può essere maggior quantità che lui medesimo. Di piú l’uomo soffre dei dolori i quali cessano lentamente, onde non hanno un piacere che ad essi corrisponda. Dunque la somma totale delle sensazioni dolorose debb’essere in ogni uomo maggiore della somma totale delle sensazioni piacevoli. Tal è la condizione dell’uomo; ma la seducente e consolatrice speranza ci sta sempre al fianco sino all’ultimo respiro, sparge di rose la scoscesa e laboriosissima via; per lei prendiamo vigore e fiato; e s’ella ci spigne al di là del breve viver nostro, ci fa ridenti attraversare fra le difficoltà piú scabrose e placidi soffrire anche i dolori piú forti.
Se fosse vero che ogni uomo egualmente avesse che soffrire e che godere; se fosse vero che il sano, ricco, libero, rispettato, avesse tanti mali e beni, quanti ne ha l’infermo, povero, carcerato e abbietto, questa odiosissima verità, distruggitrice di ogni germe benefico di compassione, sarebbe da proscriversi da chiunque onora l’umanità. Ma la immortale verità non nuoce ai piú cari e preziosi sentimenti dell’uomo, e l’opinione di questa sognata uguaglianza è un patentissimo errore. Se ogni piacere consiste nella rapida cessazione d’un dolore, e se ogni dolore può cessare anche lentamente ne viene per conseguenza che può essere diversissima la proporzione fra l’uomo e l’uomo; e mentre uno nella serie della sua vita avrà un terzo delle sue sensazioni piacevoli, un altro appena ne avrà un decimo, un centesimo.
E qui do fine al mio discorso. Lontano egualmente dal gregge degli Epicurei, come dall’insensibilità della Stoa, se avrò fatte cessare rapidamente e con frequenza le sensazioni dolorose di chi mi ha letto; se avrò invitato a pensare ad analizzare l’inesauribile fondo della propria sensibilità, avrò ottenuto il fine che mi era proposto.