Discorso sull'indole del piacere e del dolore/XI

Il dolore precede ogni piacere ed è il principio motore dell'uomo

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Il dolore precede ogni piacere ed è il principio motore dell'uomo
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Osserviamo i bambini; essi meritano la compassione e l’assistenza nostra, e sono i migliori maestri che possiamo scegliere per conoscere l’uomo e lo sviluppo della sensibilità. Al momento in cui il bambino nasce ci dà tutti i contrassegni del dolore e d’un violento dolore. I Persiani, per renderci maravigliosa l’origine del loro legislatore, asserirono che appena nato ridesse, ma la natura dovunque ci fa vedere il bambino gemente e smanioso al suo nascere, e per due o tre mesi dopo nato ancora o ce lo mostra stupido ovvero addolorato. Le prime sensazioni adunque dell’uomo sono il dolore. Infatti l’aria ferisce le loro membra molli e sensibilissime; la luce percuote violentemente i loro occhi delicati; il latte aggrava il loro stomaco e cagiona le irritazioni ne’ loro visceri; le loro lagrime, le grida, l’inquietudine, tutto ci manifesta lo stato dolorosissimo del loro essere. Trascorrono, non che i giorni e le settimane, anche i mesi dopo che gli occhi sono troppo avvezzi al pianto, che la loro bocca comincia ad apprendere i1 sorriso. Questo fatto ci prova che il dolore lo può sentire l’essere organizzato al primo momento di sua esistenza, e che il piacere non si sente se non dopo d’aver sofferto il dolore. Infatti una sensazione suppone un cambiamento di stato nell’organo che la riceve, cioé o una tensione accresciuta ovvero diminuita. Se l’organo era nello stato di perfezione la prima sensazione lo toglie da quello, conseguentemente è un disordine e un dolore. Se poi l’organo era viziato o per soverchia tensione o per ammollimento soverchio, la prima azione de’ corpi esterni, può bensí rimediarvi, ma sarà preceduta dal dolore che produceva il vizio della costruzione organica, e cosí ne deriva che la prima sensazione deve necessariamente essere dolorosa. I dolori che soffrono i bambini ne’ primi mesi della loro vita potrebbero forse da taluno attribuirsi alla gracilità e imperfezione de’ loro organi ancora informi, anzi che alla primitiva legge della sensibilità; e perciò figuriamoci che dal sommo Essere venga creato un uomo, il quale nel primo istante della sua esistenza sia organizzato come lo sono comunemente i giovani a venti anni, e immaginiamo se è possibile il presentargli una sensazione piacevole, la quale sia la prima, e non preceduta da alcuna dolorosa. L’appetito del cibo o della bevanda non lo potrebbe movere, perché conviengli prima aver provato i dolori della fame e della sete; indifferente riuscirà ogni sapore a chi non ha potuto prima sentirne mai il bisogno. L’odore parimenti d’una rosa o d’un gelsomino farà la piú indifferente sensazione in quest’uomo, se pure farà sensazione; di che ne dubito perché i sensi nostri si vanno educando colla società, modificando coll’uso, e artificiosamente snaturando per modo che moltissime volte l’uomo colto crede di provare o piacere o dolore, e s’inganna sedotto dall’abituazione di vedere associate ad un oggetto le espressioni del piacere, ad altro quelle del dolore; di che fra poco tornerò a trattare. Lo stesso dirò di ogni suono musicale, il quale se non giugne alla scossa dolorosa, non darà sensazione all’uomo immaginato; e lo dico pure dell’amore anche fisico, ch’ei non può sentire se non provò prima le dolorose inquietudini che lo fanno nascere in noi; e cosí ogni oggetto si presenterà alla di lui vista indifferentemente, a meno che non lo addolori; ed ogni giacitura o tatto del suo corpo sarà di nessun effetto, a meno che non lo addolori, ovvero non si trovi già lasso e addolorato dalla situazione in cui giaceva. L’essenza adunque della sensibilità importa di cominciare col dolore, perché o l’azione sopra i nostri organi è dolorosa, ovvero è un rimedio alla dolorosa organizzazione, ovvero è azione inefficace, indifferente e nulla: il dolore è un’azione, il piacere è una rapida cessazione di essa. Con ciò l’uomo è riposto a vivere in mezzo ai dolori. Io non dirò che il dolore per sé sia un bene; dirò bensí che il bene nasce dal male, la sterilità produce l’abbondanza, la povertà fa nascere la ricchezza, i bisogni cocenti affinano l’ingegno, la somma ingiustizia fa nascere il coraggio, in una parola il dolore è il principio motore di tutto l’uman genere; egli è cagione di tutti i movimenti dell’uomo, che senza di lui sarebbe un animale inerte e stupido, e perirebbe poco dopo di esser nato; egli ci spinge alla fatica del lavoro de’ campi, ci guida a creare e perfezionare i mestieri, c’insegna a pensare, crea le scienze, fa immaginare le arti e le raffina; a lui siamo, in una parola, debitori di tutto, perché dalla eterna Sapienza ci è stato collocato intorno acciocché fosse il principio che desse vita, anima e azione all’uomo. Appena nati trascorrono poche ore, e il dolore della sete sveglia l’assopito bambino, gl’insegna a trangugiare il latte, poi dà moto alla sua lingua, alle sue mascelle, e gl’insegna a succhiarlo; senza il dolore non si ciberebbe, e la morte sarebbe assai vicina al nascimento. Poi, cade nella passiva indifferenza e dorme; non piú sarebbe richiamato alla vita, se il dolore non lo scuotesse. Noi stessi, adulti che siamo, non ci svegliamo mai spontaneamente dal sonno; comunemente il dolore, cagionato dalla lunga pressione sulle parti sulle quali stiamo giacendo, è quello che ci desta; infatti la prima azione che facciamo allo svegliarci si è un moto che cambi la nostra giacitura, e distendiamo i muscoli che per quello spazio di tempo rimasero raggruppati; talvolta un affannoso sogno, dolorosamente agitando la nostra immaginazione, ci desta: il sonno condurrebbe naturalmente alla morte se non vi s’intrapponesse il dolore. Se uno sconcerto accade nella nostra macchina, il dolore è quello che ci avvisa e ci scuote a ripararlo; senza del dolore, il ferro, il fuoco, gli altri esseri consumerebbero le nostre membra prima che ce ne avvedessimo. L’uomo, se non soffrisse dolore, apparirebbe alla luce per una brevissima vegetazione, che lasciandolo svenire privo d’alimento, lo piegherebbe poco dopo alla morte. Se l’uomo non avesse sofferto il dolore del caldo, del freddo, della umidità e delle malattie, non avrebbe mai cominciato a formarsi delle capanne, poi delle case né a tessere per riparare il suo corpo. Se il dolore della fame non l’avesse spinto non mai si sarebbe dato alla caccia, alla vita pastorale, indi alla coltivazione della terra. Fatti questi primi passi, sarebbesi l’uomo limitato a queste arti ed alle adiutrici; ma la naturale fecondità della specie moltiplicò i dolori e la ricerca de’ mezzi per sedarli; e nacque l’industria, che dopo essersi esercitata in rapine, dovette passare a stabilire le proprietà; e poscia i pochi che poterono profittare del moto altrui risparmiarono il dolore della fatica, e si rifugiarono in quello stato di quiete e di torpore, che è lo stato naturale dell’uomo mancante di dolori. I ricchi poi viventi col moto della classe dei coltivatori e degli artigiani, liberati dai dolori primigeni della fame, della sete e delle stagioni, nell’ozio divennero sensibili piú delicatamente; e quindi incominciando a provar dolore nella ruvidezza del vestito, nell’ambiente dell’albergo, nella durezza del letto, cominciarono ad esigere dagli artigiani esattezza maggiore; e cosí gradatamente i dolori che nuovamente si andarono creando colla mollezza della vita, portarono l’uman genere ai primi passi verso della coltura. Col passare dei secoli, ai dolori fisici si aggiunsero i dolori morali; si sviluppò nell’uomo la gelosia di primeggiare; il fasto, l’orgoglio di alcuni insultò molti: taluno si riscosse, e per liberarsi dalla dolorosa umiliazione affrontò costantemente la fatica dell’ingegno e dell’eroismo; e per sottrarsi a quei dolori pungentissimi altri divennero guerrieri, altri legislatori, altri scopritori di verità. Cosí nacquero le scienze e le arti dalle piú facili sino alle piú astratte e raffinate, cosí ogni bene del mondo ha la sua radice nel male, cosí il dolore è il principio dell’azione, e cosí l’uomo per sottrarsene lo affronta e abbraccia, sempre fuggendo dal maggior dolore e sopportando la fatica, che pure è dolorosa, perché lo libera da dolori piú forti. Infatti le nazioni che abitano un clima dolce, ove la terra facilmente somministra l’alimento, sono la sede dell’indolenza; e ne’ climi piú aspri, e ne’ terreni piú avari veggiamo gli uomini spinti ad un’attività abituale che forma nell’uomo quasi un bisogno di agire. Il regno della immaginazione sta nelle prime: questa s’alimenta co’ vaghi deliri d’una vacua esistenza. Ma il liceo delle scienze lo troverai presso le seconde; esse sono il risultato di sforzi continuati e combinati da una energica industria. Se nelle prime per la generale mancanza di azione la società degli uomini dorme costantemente sotto il governo d’un despota, detronizzato talvolta in un momento di furiosa impazienza, e ben tosto seguito da un altro despota; nelle seconde la società sempre è in moto, e difficilmente persevera i secoli nel medesimo stato. I Persiani oggigiorno s’assomigliano piú ai loro antenati del tempo d’Ezechiello, di quello che noi abbiamo di somiglianza co’ nostri avi dello scorso secolo sí nelle usanze e fogge di vestire, alloggiare e cibarci, quanto nella serie istessa delle nostre idee. La poesia, l’eloquenza, le favole, i romanzi, i racconti esageratamente prodigiosi, nascono per lo piú ne’ climi caldi e molli, e ne’ paesi spontaneamente fecondi, perché sono questi i prodotti di una vita priva di cure e sedentaria; le matematiche sublimi, la erudizione laboriosa, la esatta critica, la giudiziosa e paziente osservazione delle cose fisiche e intellettuali, sono effetti d’un moto contenzioso del nostro ingegno il quale non affronta le difficoltà, né regge a superarle se non viene incessantemente punto dal dolore, e perciò la loro sede trovasi ne’ climi piú ingrati, e se talvolta ne spunta un raggio in piú felice clima, ciò sarà come una banana o un ananas, còlto in Europa per artificiali e separate cagioni domestiche, non mai dipendenti dalla influenza generale e comune. Due pensatori del primo ordine hanno stabiliti opposti sistemi sull’indole delle nazioni; l’uno deriva tutto dal clima, l’altro deriva tutto dalla legislazione: il primo fa emanare tutto immediatamente dalla fisica; il secondo tutto dalle istituzioni morali. Bramo che gli uomini che hanno parte al destino dei popoli tengano la seconda opinione, poiché l’altra mi sembra tanto perniciosa nella politica quanto nella privata morale la fatalità. Io però credo che il dolore è il principio motore dell’uomo; questo nasce e dal clima in cui l’uomo respira e dalla forma con cui è governato; bensí è vero che piú ferma e durevole ed uniforme di ogni altra è l’azione meccanica del clima, e i dolori da esso cagionati l’uomo li tollera e li ripara senza sdegno e ribellione, perché inevitabili e senza insulto; ma non perciò una parte sensibile può ricusarsi agl’istituti sociali, i quali se del cavallo e del cane possono formare due esseri per la guerra, la caccia e i tornei, quantunque non giungano a formarli tutti di eguale coraggio e docilità (il che dovrebbesi fare se l’educazione facesse il tutto), cosí degli uomini possono formarne o buoni, o malvagi, o industriosi, o scioperati, a misura della sapiente o inconsiderata o capricciosa creazione delle leggi.