Discorso sull'indole del piacere e del dolore/VIII

I piaceri delle belle arti nascono dai dolori innominati

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I piaceri delle belle arti nascono dai dolori innominati
VII IX

La musica, la pittura, la poesia, tutte le belle arti hanno per base i dolori innominati; in guisa tale che, se io non erro, se gli uomini fossero perfettamente sani e allegri, non sarebbero mai nate le belle arti. Questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri piú delicati della vita. Esaminiamo infatti l’uomo nel momento in cui è veramente allegro, contento e vivace, e lo troveremo insensibile alla musica, alla pittura, alla poesia e ad ogni bell’arte, a meno che la precedente abituazione meccanicamente non lo porti a riflettervi, ovvero la vanità di mostrarsi sensibile non lo renda ipocrita in quel momento. L’uomo vigoroso che ha la contentezza nel cuore, è nel punto il piú rimoto dalla sensibilità; questa s’accresce col sentimento della nostra debolezza, dei nostri bisogni, dei nostri timori. Un uomo che abbia della tristezza, s’egli avrà l’orecchio sensibile all’armonia, gusterà con delizia la melodia d’un bel concerto, s’intenerirà, si sentirà un dolce tumulto di affetti, godrà un piacer fisico reale, cioé sarà rapidamente cessato in lui quel dolore innominato, da cui nasceva la tristezza, coll’esser l’animo assorto nella musica, e sottratto dalle tristi e confuse sensazioni di dolori vagamente sentiti e non conosciuti. Anzi, per uscire dalla tristezza che lo perseguita, l’uomo per sé medesimo si aiuta e cerca di abbellire e di animare coll’opera della fantasia l’effetto delle belle arti, e per poco che abbia l’anima capace d’entusiasmo come nella casuale posizione delle nubi ei ravviserà l’espressione di figure in vario atteggiamento, cosí nelle variazioni musicali s’immaginerà molti affetti, molti oggetti e molte posizioni, alle quali il compositore medesimo non avrà pensato giammai. La musica singolarmente è un’arte, nella quale il compositore dà l’occasione a chi l’ascolta di associarsi al suo travaglio per ottenere l’effetto della illusione. Una bella pittura, una sublime poesia, faranno qualche senso anche in chi non ne abbia gusto o passione; ma una bella musica resterà sempre un rumore insignificante per chi non abbia orecchio a ciò fatto e positivo entusiasmo per la ragione già detta che la musica lascia fare la piú gran parte alla immaginazione di chi l’ascolta. Perciò la medesima musica piacerà a diverse persone, nel tempo medesimo in cui le sensazioni di esse saranno diversissime; uno la troverà sommamente semplice e innocente, l’altro tenera e appassionata; il terzo la troverà armoniosa e ripiena, e cosí dicendo. Le quali diversità non accadranno sí facilmente nel giudicare della pittura, né della poesia; perché, come dissi, in queste l’artista è attivo, e l’ascoltatore purché abbia una squisita sensibilità, è quasi puramente passivo; laddove nella musica l’ascoltatore deve coagire sopra sé stesso e dalle diverse disposizioni del di lui animo accade che ora in un modo ora nell’altro agisca, e sieno cosí diverse le sensazioni prodotte dal medesimo oggetto occasionale. La pittura parimenti non occuperà l’animo ilare e giocondo di un uomo in un momento felice; ma per poco ch’egli sia rattristato da qualche passione o dolore innominato l’uomo si presterà alla di lei azione, e da quella l’animo di lui resterà piú o meno occupato. Le anime appassionate saranno piú sensibili ai quadri i quali sveglino sentimenti. Gli altri meccanicamente conoscitori potranno essere assorbiti dalla maraviglia per le difficoltà superate dall’artista, per la destrezza e giudizio col quale sono disposte le figure, le ombre e i colori. Nell’animo assorbito da quest’oggetto cessa rapidamente il dolore innominato e ne nasce il piacere; ma per gustare un piú gran numero di piaceri nella pittura conviene ch’ella desti nel cuore de’ sentimenti. La cessazione dei dolori innominati allora è piú frequente, perché piú l’anima viene con ciò distratta dallo stato di prima, e interamente occupata di oggetti che creano dolori, e li estinguono e li riproducono, e rapidamente li annientano a vicenda. Io ho provato un piacere assai vivo nel mirare la prima volta un quadro rappresentante la partenza d’Attilio Regolo da Roma. L’eroe campeggia nel mezzo, vestito della toga e del lato clavo; la fisonomia presa dall’antico esprime una placida e ferma virtú: pareami però nel riflettervi ch’ei premesse a forza un profondo dolore. Egli è nell’atto d’incamminarsi alle navi cartaginesi che sono sul Tevere, alle sponde del quale si passa l’azione. Conobbi alla somiglianza il figlio dell’eroe; fanciullo ancora, sembra opporsi passionatamente al passo di suo padre, mentre una figlia si copre il volto colla mano del padre in atto di baciarla, e stringendola fra le due tenere sue mani cela le proprie lacrime e la sua disperazione. Poco discosto da Attilio sta il console romano; la tranquilla maestà, che gli signoreggia nel volto, non gli toglie punto i tratti d’una sensibile e dolente amicizia. Una folla di Romani stassene dalla parte del console, e i piú rimoti si arrampicano sulle piante per veder l’eroe al grand’atto. Una romana, che si vede per il dorso, stendente il braccio verso l’eroe, e additandolo a un suo pargoletto sembra ammaestrarlo con quest’esempio e dirgli: "Mira, quegli è un Romano". Frattanto due Cartaginesi abbronziti sul mare e che si distinguono al barbaro vestito, non meno che per i tratti odiosi della loro fisonomia, compaiono attoniti e confusi. Tutto il quadro è esattamente conforme al costume, e spira maestà, grandezza e sentimento. La voluttà che ne provai non fu breve; mi sentii commovere come da una tragedia; mi feci illusione come se esistessero gli oggetti; m’immaginai i loro sentimenti, le loro parole in quell’atto; tristezza, compassione, rispetto, ammirazione, stupore furono i diversi affetti che successivamente mi agitaron l’animo. L’idea di questo quadro pieno di calore e di grandezza è nata da un gran ministro, per cui fu fatto, il di cui genio ha operato una felice rivoluzione negl’ingegni dei popoli alla sua cura confidati. Parimenti al teatro uno spettatore veramente lieto e vegeto si troverà poco sensibile, e sarà continuamente distratto; laddove, per lo contrario l’uomo che trovisi un po’ infelice s’intenerirà, singhiozzerà, proverà una voluttà squisitissima alla rappresentazione d’una buona tragedia. L’uomo le poche volte, nelle quali veramente sta bene entro di sé stesso, non si piega mai, né si lascia assorbire da un solo oggetto; i nostri affetti, le nostre idee sarebbero di lor natura repubblicane, e non consentono infatti a soffrire un dittatore se non quando i torbidi interni ci costringono. Ogni uomo entusiasta, ogni uomo che appassionatamente ama o una scienza, o una bell’arte, o un mestiero, o cosa qualunque, non l’ama per altro se non perché egli è originariamente infelice con sé medesimo, e tanto piú avidamente ama i mezzi per sottrarsi quanto è maggiore la somma dei dolori innominati ch’ei soffre abbandonato a sé medesimo. L’uomo che esiste male, isolato, cerca di darsi in preda ad un oggetto prepotente per essere da quello occupato; ma l’uomo robusto, lieto e felice, sfiora sorridendo gli oggetti, e signore della natura domina le sensazioni proprie tranquillamente. Quindi poca o nessuna compassione troverai presso di lui, non già per durezza o malignità, ma per la volubilità naturale del suo felice animo che leggermente si occupa, tutto vede, nulla esamina e sente un solletico bensí nelle idee, ma non urto, né impeto giammai. Molti hanno detto che gli sciocchi sono felici; io anzi dico che i felici sono sciocchi, perché l’uomo che non soffra il pungolo del dolore e che tranquillamente viva vegetando, non ha una ragione sufficiente per superare l’inerzia e attuarsi presso di verun oggetto; quindi nessuna parte dell’ingegno se gli può sviluppare, e nessuna idea viene da lui esaminata attentamente. Non v’è principio che lo obblighi a balzar fuori dall’indolenza ed affrontare la fatica. Non è dunque la sciocchezza cagione della felicità; ma al rovescio l’uomo è sciocco, perché è felice. In fatti troveremo che tutti gli uomini che coltivano le scienze e le arti con qualche buon successo, furono spinti dall’infelicità e dalla folla dei mali sulla laboriosa carriera che hanno battuta. Leggiamo le memorie degli uomini piú illustri in qualsivoglia parte dell’umano sapere e troveremo costantemente che o la domestica inopia, o la persecuzione, o il disprezzo altrui, ovvero i mali di una cagionevole organizzazione gli spinsero all’azione, al moto, alla fatica; la qual fatica per sé stessa è dolorosa, e non si abbraccia dall’uomo naturalmente se non quando inseguíto da un dolore ancora piú grande spera in essa di ritrovare un salvamento; ella è un dolore meno grande dell’altro che si soffrirebbe senza di lei; e l’uomo, fuggendo sempre il dolore, lo abbraccia non per acquistare una quantità di esso, ma per rifiuto e fuga della porzione eccedente. Ed ecco come non solamente ogni piacere che risvegliano le scienze e le belle arti nasca dai dolori principalmente innominati, ma dai dolori nasca ogni spinta a conoscerle, a coltivarle, a ridurle a perfezione. Cosí l’idea terribile del dolore è l’archetipo di quella serie di purissimi piaceri, che fanno la delizia delle anime piú delicate e sensibili. Sebbene, parlando dei dolori innominati, io principalmente gli abbia attribuiti all’azione fisica immediata dei corpi sugli organi nostri, non intendo dire perciò che una parte di questi non venga anche da sensazioni morali mal conosciute. Nella società di persone, le quali mostrino indifferenza per noi, o poca stima, proviamo un dolore innominato, e lo chiamiamo noia; quando quel sentimento è piú deciso e conosciuto, lo chiamiamo umiliazione, dispetto, ecc. L’amor proprio riempie l’animo nostro di sentimenti innominati qualunque volta sia offeso mediocremente e senza grande impeto. I dolori innominati adunque possono essere o fisici o morali; sono soltanto alcune affezioni dolorose le quali sordamente fanno un malessere in noi, senza che la riflessione nostra ne abbia analizzata e riconosciuta esattamente la cagione.