Discorso sull'indole del piacere e del dolore/IX

Applicazione del principio alle belle arti

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VIII X

Se il fine delle belle arti è quello di cagionar piacere e allettarci con esso a ben accoglier l’utile, dalla teoria esatta del piacere ben conosciuta dovrebbero dedursi come corollarie conseguenze i principî primordiali delle belle arti istesse. Non è tanto difficile all’artista di colpire e sorprendere al bel principio, quanto assai piú è difficile il conservarsi attento lo spettatore e con una serie di piaceri sempre gradatamente crescenti, sebbene interrotti, impegnarne l’attenzione per qualche tempo costante. Le prime arcate clamorose d’una grande orchestra, il primo periodo d’un oratore che con enfasi declami, il primo affacciarsi di un quadro grande e colorito vivacemente, la prima scena di una rappresentazione teatrale, ottengono facilmente il fine di aver lo spettatore attento e occupato di un primo piacere, quale si è la sorpresa, da cui nasce l’istantanea cessazione dei dolori innominati e la distrazione da sé medesimo. La grand’arte consiste a sapere con tanta destrezza distribuire allo spettatore delle piccole sensazioni dolorose, a fargliele rapidamente cessare, e tenerlo sempre animato con una speranza di aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch’egli prosegua ad essere occupato degli oggetti proposti, e terminatane l’azione, richiamandosi poi la serie delle sensazioni avute, ne veda una schiera di piacevoli, e sia contento di averle provate. A tal proposito io osservo che sarebbe intollerabile una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e sparse delle dissonanze, le quali cagionano una sensazione disgradevole e in qualche modo dolorosa. Cosí nella poesia dei versi aspri distribuiti sapientemente a tratto a tratto cagionano una sensazione disgustosa, e rapidamente la fanno cessare armoniosi e sonori versi. Cosí nella pittura alcune ombre piú crude, alcuni tratti di pennello studiatamente strapazzati sono un oggetto spiacevole a vedersi, ma ci fanno gustare la delicatezza, la luce, il colorito e il finimento del restante. Le belle donne amano piú di comparire di notte, anzi che colla luce del giorno. Di giorno il gran corpo della luce parte da un canto solo, tutte le prominenze del volto, tutte le cavità ricevono un’ombra, la quale rende marcati i tratti. Una sala da ballo signorilmente illuminata invece riceve la luce da tutte le parti in un colpo stesso; tutta la figura è uniformemente rischiarata e quasi sempre lucente. Forse l’arte dello scrivere piacevolmente non consiste che in ciò che reciprocamente non tanto i suoni delle voci, ma le immagini ancora si alternino disgustose, poi aggradevoli e gentili. Un séguito d’idee tutte geometricamente ordinate e con simmetria disposte forma un libro eccellente per insegnare una scienza; ma un’opera piacevole elegantemente scritta fa ritrovare le grazie e i vezzi frammezzo a un leggiadro disordine. L’abile artista in ogni genere debb’essere come il voluttuoso giardiniere d’Aristippo. Un lunghissimo viale piano, uniforme, fra due siepi parallele, t’invita a un noiosissimo passeggio, che sempre ti presenta l’oggetto medesimo, e ti guida alla stanchezza prima che ti sia avveduto d’aver cambiato luogo. A quel viale s’assomiglia ogni opera laboriosa, esatta, regolare ove non siavi verun lato negligentemente tocco. Quel viale è un placido poema di versi tutti sonori, è una musica tutta di consonanze, è una pittura cinese tutta monda e di vivaci colori. Non v’erano viali nel giardino di quel filosofo. Il passeggio era preparato con una varietà deliziosa. Un sentiero t’invitava al bosco: l’attraversavi calpestando l’erbe e i fiori che i raggi del sole non avean veduti mai: una fresca umidità, un sacro silenzio regnavano d’intorno, e quasi provavi spiacere e timidezza come se ivi ti ritrovassi separato dal soccorso degli uomini. Appena questo sentimento cominciava a molestarti, improvvisamente eccolo cessato: termina il bosco, e ti si affacciava da un lato la vista d’una spaziosa campagna popolata di case; spigni l’occhio quanto puoi, non troverai altri confini che l’orizzonte. Esaminavi deliziosamente quest’oggetto; ma t’inquietava la curiosità di godere d’altre sorprese, che ben conoscevi esserti preparate ancora dopo un sí giudizioso principio, e questa curiosità, molestamente scuotendoti, ti obbligava ad inoltrarti. Dopo pochi passi inutilmente ti rivolgevi per rimirar nuovamente la bella vista, perché una collinetta vicina rimaneva frapposta all’oggetto e come un bel sipario chiudeva la passata scena. Qui diventava piú angusto il teatro che avevi davanti gli occhi; vari ruscelli parte cadenti, parte lambenti lo strato della collina, occupavano piacevolmente il tuo sguardo. Restava da ascendere. Il sentiero diventava rapido e di qualche incomodità; appena cominciavi a provarne dolore e stanchezza, eccoti una grotta non prima veduta dove l’acqua zampilla da ogni parte, e dove agiatamente ti siedi a rimirarla. L’acqua sapientemente diretta ivi dava moto a concerti musicali, che ti sorprendevano perché inaspettati. La dolce melodia pastorale ti lasciava in preda a soavissime immagini; l’ardita sinfonia della guerra e della caccia ti urtava in séguito e ti rinvigoriva sinché destandoti nuovamente l’importuna curiosità ti alzavi e proseguivi il passeggio, frattanto già punto da due dolori, stanchezza e curiosità. Il cammino giudiziosamente ti riconduce d’onde partisti, senza la noia di replicarti le stesse sensazioni. Ora ti ricreano i soavissimi odori de’ fiori e delle piante piú rare; in séguito un prospetto impensato di antica architettura rovinata dal tempo; qui un tempietto, là un parco di fiere, poi un piccolo canale navigabile, ti sorprendono aggradevolmente e fanno rapidamente cessare i sentimenti dolorosi che naturalmente s’intrudono fra l’uno e l’altro oggetto; e ritornavi all’albergo dopo un’ora beatamente impiegata, pago del modo col quale eri frattanto vissuto. Parmi con questa immagine che resti toccato l’essenziale principio delle belle arti. Una galleria, un museo veduto di volo difficilmente fanno passar bene una giornata. Bisogna che le cose belle sieno a una certa distanza le une dalle altre, distanza o di luogo o di tempo, in guisa tale che abbia luogo fra una sensazione e l’altra d’intromettersi il dolore. Un libro in cui di séguito vi fosse una serie contigua di idee tutte sublimi e fitte, non potrebbe essere mai un libro piacevole, se non l’aiutasse l’oscurità. Questa oscurità obbliga il lettore a interporre uno spazio per meditare attentamente onde poter intendere il pensiero dell’autore. Frattanto il lettore soffre e per la fatica che è costretto di fare e per l’impazienza d’intendere. Se questo dolore non è indiscreto, viene rapidamente a cessare coll’intelligenza della proposizione; cosí le cose troppo fitte, se non ha lo spettatore il tempo di diradarle riescono sempre di poco pregio. È un’arte sagacissima quella di lasciar fare qualche cosa allo spettatore e di servire di occasione puramente alle sensazioni ch’egli eccita sopra sé medesimo. Alcune reticenze d’un oratore fanno il medesimo effetto, come la figlia di Attilio Regolo di cui ho parlato di sopra, coprendosi il volto colla mano del padre in atto di baciarla. Quel volto celato lascia in libertà la fantasia d’ogni uomo di figurarsi la fisonomia la piú bella, la piú addolorata che ciascuno può immaginare. Quindi ognuno risvegliando le idee piú analoghe a sé medesimo, agisce sulla propria sensibilità in un modo assai piú energico di quel che farebbe, se l’oratore, il pittore, il poeta, ecc. volessero agire in dettaglio essi medesimi e determinare l’impressione. La reticenza di alcune idee intermedie consola altresí l’amor proprio del lettore, e gli fa cessare quel sentimento di paragone che ordinariamente è doloroso, quando leggendo un buon libro si diffida di poterne fare altrettanto. Ma troppo mi svierei dall’argomento che mi sono proposto, se volessi entrare piú addentro coll’immaginazione fra questi ridenti oggetti; e ritornando al soggetto del quale ora io tratto, parmi che lo scopo d’ogni buon artista sia quello di spargere le bellezze consolatrici dell’arte in modo che vi sia intervallo bastante fra l’una e l’altra per ritornare alla sensazione di qualche dolore innominato, ovvero di tempo in tempo di far nascere delle sensazioni dolorose, espressamente e immediatamente soggiugnervi un’idea ridente, che dolcemente sorprenda e rapidamente faccia cessare il dolore. Quest’arte riesce anche nella civile società. L’uomo piú amabile è quegli il quale sa in noi calmare i dolori morali che portiamo con noi, e per dimenticare i quali ricerchiamo la società. Se quest’uomo fosse sempre dolce e compiacente, riuscirebbe noioso per la stessa uniformità; ogni dialogo con lui diverrebbe insipido e breve perché senza contraddizione; la stessa lode ci lascerebbe insensibili, e non sarebbe piú l’uomo amabile. Esso stuzzica in noi e risveglia qualche leggiero dolore, move qualche contraddizione delicata, c’inquieta industriosamente, e interpone a questi piccoli mali degli inaspettati contrassegni di stima e di amicizia, che dolcemente ci colpiscono. Un giovane ufficiale francese giugne all’armata, va al quartier generale, per presentarsi al maresciallo di Villars, francamente attraversa la folla e ad alta voce chiama: "Dov’è Villars?" Il maresciallo offeso da questa famigliarità indecente, "Dite almeno il signor di Villars," gli soggiugne. Al che l’ufficiale: "Non ho mai inteso dire il signor Alessandro, il signor Cesare". Il maresciallo a una lode cosí impensata, al paragone tanto consolante per la sua gloria fra i piú gran capitani dell’antichità e lui, dovette sentire un piacere tanto piú grande quanto piú rapida fu la cessazion del dolore. In mezzo al senato di Roma convocato davanti a Tiberio, s’alza liberamente un Romano, e, apostrofando l’imperatore, cosí comincia a parlare: "Cesare, tu sei l’uomo piu’ ingiusto che viva sulla terra". Figuriamoci quai sentimenti si svegliarono ne’ cuori a quest’esordio: que’ senatori tanto bassamente avviliti, che Tiberio stesso li chiamava un gregge di schiavi, quegli uomini già al colmo della corruzione avranno paventato un supplizio in pena d’aver ascoltato. Tiberio doveva fremere...; ma proseguí il Romano: "Sí, il piú ingiusto, perché dipendendo la salute pubblica dalla tua, dimentichi affatto la propria conservazione e tutto consacrato alla felicità, alla gloria di Roma, impieghi per lei quelle cure che pur dovresti riserbare in parte a te stesso per rendere piú diuturna la beatitudine del tuo impero, ed esauditi i nostri voti". Il modo piú insinuante per lusingar l’amor proprio degli uomini si è appunto soggiugnendo la lode a qualche puntura, perché la prima cagiona dolore e ci fa credere d’esser poco curati in quel momento da chi ci parla. Sopravviene impensatamente l’encomio, e rapidamente cessa la sensazion dolorosa, e la sorpresa fa che piú intensamente ci occupiamo della dolce idea non preveduta. Un negoziante è impaziente, perché tarda a giugnere la nave che ha il carico delle sue merci; la dilazione lo ha reso inquieto, e già dubita di qualche sciagura. Mentre egli sta in casa tristamente occupato delle conseguenze che teme, un suo amico vede entrare salva la nave in porto. Corre a casa del negoziante, simula d’aver la tristezza in volto, entra a discorrergli della sua nave, finge una relazione avutasi d’una burrasca e d’un naufragio, indica alcune circostanze sul luogo, sulla bandiera, sulla qualità della nave. Il negoziante si agita, teme, gli pesa addosso in quel momento tutta la serie dei mali che prevede in conseguenza. L’amico lo riduce a quel punto e gli dà la novella che la nave è felicemente giunta; cosí cagiona nell’animo del suo amico una gioia assai piú vivace, quanto è stata maggiore la quantità del dolore che ha fatto rapidamente cessare.