Discorso sull'indole del piacere e del dolore/IV

Il piacere morale non è altro che una rapida cessazione di dolore

../III ../V IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Saggi

Il piacere morale non è altro che una rapida cessazione di dolore
III V

Né perciò abbiamo ancora trovata la vera definizione del piacer morale; perché sebbene il piacer morale sia sempre accompagnato dalla cessazione del dolore che presuppone, non però ogni cessazion di dolore produce un piacer morale. Sia per esempio: un cuore sensibile ama teneramente la virtuosa sua sposa; la dolce abitudine di convivere, la uniformità di sentimenti, la bontà del suo carattere, tutto fa che in lei ritrovi la felicità de’ suoi giorni: una feroce malattia sopravviene alla sposa e la precipita ai confini della morte. Facile è lo immaginarsi quale strazio crudelissimo soffre il cuore dello sposo; ognuno accorderà che questo sia uno de’ piú violenti dolori morali. Giunto al colmo il malore con gradi tardi ed insensibili, passa dall’imminente pericolo ad acquistare alcuna speranza di ore, poi di giorni, poi non è affatto disperatissimo il caso; indi appare un piccol raggio di speranza che gradatamente e lentamente si va rinforzando sin tanto che si passa a una lunga convalescenza, indi alla sanità. Supponiamo che senza salto veruno, ma attraversando tutti gli stadi intermedi che non si possono esprimere gradatamente colle voci, le quali in ogni lingua caratterizzano unicamente i modi principali e decisi, il dolor morale dello sposo sia cessato. In questo caso il sommo dolore s’andò insensibilmente mitigando, si rese poi sopportabile, indi leggiero, sin tanto che placidamente passò alla calma, senza che in un solo istante l’animo dello sposo abbia provato un piacer morale. Figuriamoci ora lo sposo medesimo nel punto in cui per una falsa voce piange la perduta sua sposa, e nel momento della sua maggior desolazione si spalancano le porte, entra la sposa inaspettatamente ilare e sana che si scaglia fra le sue braccia; forse non avrà robustezza bastante nella fibra per resistere alla violenza del piacere; pochi piaceri morali possono essere paragonabili alla delizia di questo. L’istesso uomo nelle due supposizioni passa dal sommo timore al non temere; l’istessa persona nei due casi da un dolore cocentissimo passa alla cessazion del dolore. Perché mai nel primo caso non provò egli nessun piacere, e vivissimo lo provò nel secondo? Ne’ due casi dall’istesso dolore passò il di lui animo alla cessazione del dolore; come dunque nasce il piacere? Nel primo non ebbe piacere, perché la cessazione fu lenta; nel secondo caso ebbe un piacer sommo, perché la cessazione del dolore fu rapida. Se ciò è, abbiamo la definizione dei piaceri morali, e sono una rapida cessazione di dolore. Dei dolori morali che insensibilmente si annientano senza sentimento di piacere, ne abbiamo una schiera assai grande, e sono tutti quelli che il tempo solo fa cessare. Lo stesso sposo detto poc’anzi rimane vedovo. Uno squallido universo gli si apre davanti, non ha pace, non la spera, non è piú sensibile che al dolore, e a quel dolore solo; non prevede piú alcun bene nella sua vita. Dopo alcuni anni il dolore è diventato una memoria tenera, ma non tormentosa. Si è annientato il tormento senza che nell’annientarsi sia nato verun piacere morale, perché appunto lentamente e per gradi si è estinto. Il piacere nasce adunque dal dolore, e consiste nella rapida cessazione del dolore; ed è tanto maggiore quanto lo fu il dolore, e piú rapido l’annientamento di esso. Quanto piú si diminuisce la rapidità, di tanto viene a scemarsi la sensazione piacevole nella energia. Sin tanto che la cessazione si farà a salti sensibili, l’uomo proverà tanti piaceri quante sono esse cessazioni; e interamente sarà svanito ogni piacere, allorquando cesseranno i salti, e lentamente calmandosi il dolore, toccherà l’uomo tutti gli stadi intermedi con pausa di tempo. Pare che tutta la serie delle sensazioni morali adunque corrisponda ai modi possibili di esistere concepiti da noi. Nella nostra fantasia, dopo che la sperienza ci ha ammaestrati dei modi diversi ne’ quali possiamo esistere, e delle diverse affezioni delle quali possiamo essere occupati, si dipinge come una scala di questi diversi modi; e considerando sempre la nostra attual condizione sempre lontana dalle due estremità del sommo bene e del mal sommo, ci resta che temere e che sperare. Quindi prevedendo una prossima discesa a un genere peggiore di vita, ci addoloriamo e antivedendo la probabilità di ascendere a una vita migliore, speriamo, e ne abbiamo piacere. Che se la nostra attuale condizione potesse da noi considerarsi giunta o all’estremità del sommo bene ovvero a quella della somma miseria, allora non vi sarebbe alcuna sensazione morale possibile per noi, perché la somma infelicità esclude ogni speranza, il sommo bene esclude ogni timore, e cosí gli uomini sono appunto sensibili alle affezioni morali, perché si conoscono lontani dalle due estremità. Le sensazioni nostre morali sono adunque relative allo stato in cui ci troviamo, a quello a cui prevediamo di dover passare. Un determinato modo di esistere non è per se stesso né un bene né un male. Sarà un bene per chi da una vita peggiore vi ascenderà, e all’incontro sarà un male per chi vi decada da una vita migliore. Quanto maggiori sono i salti, e quanto piú sono rapidi, tanto è piú energica la sensazione. Il voluttuoso, il molle Orazio sarebbe stato consolatissimo, se avesse potuto diventar collega di Mecenate; ma l’ambizioso, l’accorto Ottavio se avesse dovuto discendere al grado di Mecenate, avrebbe trovato quella situazione la piú tormentosa a soffrirsi. Se i piaceri morali nascono da una rapida cessazione di dolore, ne viene in conseguenza che quanto meno un uomo è suscettibile dei dolori morali, tanto meno lo sia dei piaceri ed all’opposto quanto piú l’uomo è in preda ai dolori morali, tanto piú lo troviamo sensibile ai piaceri. Una nazione colta e vivace in cui i sentimenti dell’onore, della gloria e della virtú sieno diffusi sopra un buon numero d’uomini sarà molto sensibile alla cortesia, alla officiosa urbanità, alla lode; ivi l’uomo ragionevole e bene educato potrà vincere l’amor proprio altrui , e cederanno l’ire e le ostilità al dolce solletico della lode e ai contrassegni esterni di onore e di stima. Per lo contrario, presso un popolo che sia meno colto, dove i bisogni fisici e l’immediata azione de’ sensi tengano tuttavia piú occupata la parte principale della sensibilità; dove, mancando la folla delle idee combinate e astratte, rimanga l’anima piú oziosa ad accorrere alle piú immediate sensazioni, ivi troveremo che o nessuno o tenuissimo sentimento faranno nascere i piú raffinati uffici, e nessuna o scarsissima voluttà produrranno le lodi, e i contrassegni del sentimento di stima. Il selvaggio non ha il dolor morale d’essere trascurato e confuso nella folla degli uomini; perciò non ha piacere d’essere distinto. L’uomo incivilito soffre gli stimoli dell’ambizione, ha dolore pensando di valer poco, di dover essere nascosto tutto entro la tomba; perciò sente il piacer morale della lode, ed ogni volta che può lusingarsi di valere, d’essere distinto, considerato, onorato, prova voluttuosissime sensazioni. Lo stesso principio distingue la sensibilità dell’uomo virtuoso da quella del malvagio. Due sono le sorgenti dell’umana virtú, e sono il bisogno della stima generale e la compassione. L’uomo virtuoso soffre continuamente per questi due principi, teme la volubilità delle opinioni, teme che o l’artificio o il caso possano involargli la buona fama, non mai bastantemente contento del grado a cui essa si trova, teme l’umana dimenticanza; mosso da tutti questi dolori morali, è spinto da continue azioni di virtú umana, cioé di quella che ha per oggetto la gloria, la lode, il sentimento del valor proprio e della propria eccellenza. La compassione, altro principio meno imperioso, ma piú benefico, fa patire all’animo buono parte de’ mali altrui, e il dolor morale che nasce da questa disposizione, porta l’uomo a liberare gli altri dai malori e dalle sventure che soffrono. Per lo contrario, l’uomo incallito nel mal costume, insensibile ai mali morali, indifferente alla buona o cattiva riputazione, freddo e immobile spettatore delle altrui smanie, perché minori dolori morali soffre, anche minori piaceri morali può provare. Se poi sgraziatamente troverassi impegnato nella strada del vizio un cuore originariamente buono e sensibile, lo stato di lui sarà degno di somma compassione; e perciò tormentato da cocentissimi dolori morali, sarà capace di voluttuosissimi piaceri morali. Egli soffre il crudelissimo peso d’una coscienza che ad ogni momento lo avvilisce; quai beni può mai godere in pace quel miserabile che legge scritto in fronte agli uomini illuminati e buoni il disprezzo e la diffidenza; che in ogni sguardo teme un rimprovero, in ogni arcano la scoperta di qualche sua bassezza; che gode precariamente la buona opinione di alcuni sedotti, e la conserva con una laboriosissima sagacità di finzioni e con una intricata tessitura di artifici, e sa che al primo momento in cui gli cadesse la maschera, farebbe orrore? Se quest’uomo che di sua indole è straniero alla iniquità, con uno slancio felice carpirà il momento per fare una generosa azione, o se mutando clima, e trasportato ove la memoria de’ suoi mali non giunga, si disporrà a cominciare una serie di azioni nobili e virtuose, egli tanto maggiori piaceri morali proverà, quanto piú furono austeri i tormenti che il vizio gli pose intorno al cuore. Gli sembrerà di respirare un’aria piú dolce e leggiera, il sole avrà per lui una piú ridente faccia, gli oggetti che gli si presenteranno gli daranno nuove e grate sensazioni, tutta la natura sarà abbellita per lui singolarmente al principio della sua onorata vita. Non però i piaceri morali che produce la virtú sono o possono costantemente essere tali, che disobblighino gli uomini dal ricompensare l’uomo che la pratica. Sono lusinghiere le apparenze sotto le quali alcuni filosofi rappresentarono l’uomo virtuoso, quasi che nella coscienza propria ei debba ritrovare la voluttà sempre pronta, qualunque sia lo stato di vita o di fortuna, sano o infermo, propizia o avversa; e ravvisarono la virtú sotto l’idea platonica di premio a sé stessa. Felice immaginazione se fosse atta a riscuotere gli uomini e guidarli sulle tracce di lei! Ma l’abitudine a ben operare diminuisce nel cuor dell’uomo il dolor morale del timore della fama, e a proporzione vanno illanguidendo i piaceri morali che vi corrispondono. Alcuni semiviziosi, vedendo l’uomo virtuoso assediato dalla gelosia e dall’invidia degli emuli, amareggiato e contraddetto, s’immaginano ch’ei trovi perfettamente ogni consolazione nel suo cuore, e soffocano in tal guisa il desiderio spontaneo di recargli aiuto. L’uomo virtuoso sente l’ingiustizia, di cui è la vittima; sente la debolezza propria contro il numero che l’opprime. Quindi il virtuoso, il forte Bruto, inzuppato della idea della virtú di Platone, dopo averla esattamente seguita nelle azioni, ritrovandosi il cuore oppresso da affanni, proruppe chiamandola un sogno; non già pentendosi di averla seguita, non già negando l’esistenza di lei, ma unicamente confessando la chimera di chi s’immaginò che la tranquilla serenità d’un’anima virtuosa, che la beatitudine di occupare sé medesima della coscienza propria potessero preservare la mente e il cuore dai dolori, dalle amarezze e da quel cumulo di mali che l’avversa fortuna precipita indistintamente sugli uomini. La giustizia perciò del grand’Essere ha riservato a sé medesima la distribuzione del premio alla virtú che non può essere bastantemente ricompensata né dal sentimento proprio, né dalla mercede degli uomini.