Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro terzo/Capitolo 36

Libro terzo

Capitolo 36

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Le cagioni perché i Franciosi
siano stati e siano ancora giudicati
nelle zuffe, da principio più che uomini,

La ferocità di quello Francioso che provocava qualunque Romano, appresso al fiume Aniene, a combattere seco, dipoi la zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio più volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zuffa più che uomini, e nel successo del combattere riescono poi meno che femine. E pensando donde questo nasca, si crede per molti che sia la natura loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è per questo che questa loro natura, che gli fa feroci nel principio, non si potesse in modo con l’arte ordinare, che la gli mantenesse feroci [p. 210 modifica]infino nello ultimo.

Ed a volere provare questo, dico come e’ sono di tre ragioni eserciti: l’uno dove è furore ed ordine; perché dall’ordine nasce il furore e la virtù, come era quello de’ Romani: perché si vede in tutte le istorie, che in quello esercito era un ordine buono, che vi aveva introdotto una disciplina militare per lungo tempo. Perché in uno esercito, bene ordinato, nessuno debbe fare alcuna opera se non regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello esercito romano, dal quale, avendo elli vinto il mondo, debbono prendere esemplo tutti gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si meritricava, non si faceva alcuna azione o militare o domestica sanza l’ordine del console. Perché quegli eserciti che fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se fanno alcuna pruova, la fanno per furore e per impeto, e non per virtù. Ma dove la virtù ordinata usa il furore suo con i modi e co’ tempi, né difficultà veruna lo invilisce, né li fa mancare l’animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono l’animo ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine, come erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere mancavano, perché, non riuscendo loro con il primo impeto vincere, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore nel quale egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la quale ei cunfidassono come [p. 211 modifica]quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i Romani, dubitando meno de’ pericoli per gli ordini loro buoni non diffidando della vittoria, fermi ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la medesima virtù nel fine che nel principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si accendevano. La terza qualità di eserciti è dove non è furore naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti italiani de’ nostri tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si abbattano a uno esercito che per qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede, ciascuno dì, come ei fanno pruove di non avere alcuna virtù. E perché, con il testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda come debbe essere fatta la buona milizia, e come è fatta la rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei voleva punire Fabio, Maestro de’ cavalli, quando disse: «Nemo hominum, nemo Deorum, verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia observentur; sine commeatu vagi milites in pacato, in hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se ubi velint exauctorent; infrequentia deserant signa; neque conveniatur ad edictum, nec discernantur, interdiu nocte; aequo iniquo loco, iussu iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines servent: latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia sit». E puossi per questo testo adunque, facilmente vedere se la milizia de’ nostri tempi è cieca e fortuita, o sacrata [p. 212 modifica]e solenne; e quanto le manca a essere simile a quella che si può chiamare milizia; e quanto ella è discosto da essere furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa solo, come la franciosa.


Se le piccole battaglie
innanzi alla giornata sono necessarie;
e come si debbe fare a conoscere
uno inimico nuovo,
volendo fuggire quelle.

E’ pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo discorso, si truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere mancare dell’uno, volendo l’altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se’ aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e del Francioso, dove Tito Livio dice: «Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in Campaniam transierit». Perché io considero, dall’uno canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare alcuna cosa, che,