Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro secondo/Capitolo 2

Libro secondo

Capitolo 2

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Con quali popoli i Romani
ebbero a combattere,
e come ostinatamente quegli difendevono
la loro libertà.

Nessuna cosa fe’ più faticoso a’ Romani superare i popoli d’intorno e parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi molti popoli avevano alla libertà, la quale tanto ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva virtù sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti esempli si conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare quella; quali vendette ei facessono contro a coloro che l’avessero loro occupata. Conoscesi ancora nella lezione delle istorie, quali danni i popoli e le città ricevino per la servitù. E dove in questi tempi ci è solo una provincia, la quale si possa dire che abbi in sé città libere, ne’ tempi antichi in tutte le provincie erano assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de’ quali noi parliamo al presente, in Italia, dall’Alpi che dividono ora la Toscana da Lombardia, infino alla punta d’Italia, erano tutti popoli liberi; come erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d’Italia abitavano. Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quegli che regnorono in Roma, e Porsenna re di Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene, come in quegli tempi che i Romani andarono a campo a Veio, la Toscana era libera: e tanto si godeva della sua libertà, e tanto odiava il nome del principe, che, avendo fatto i Veienti per loro difensione uno re in Veio, e domandando aiuto a’ Toscani contro a’ Romani, quegli, dopo molte consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto a’ Veienti, infino a tanto che vivessono sotto il re; giudicando non essere bene difendere la patria di coloro che l’avevano di già sottomessa a altrui. E facil cosa è conoscere donde nasca ne’ popoli questa affezione del vivere libero; perché si vede per esperienza, le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio né di ricchezza, se non mentre sono state in libertà. E veramente maravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto maravigliosissima è a considerare a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò da’ suoi Re. La ragione è facile a intendere; perché non il bene particulare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle republiche; perché tutto quello che fa a proposito suo, si esequisce; e quantunque e’ torni in danno di questo o di quello privato, e’ sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla disposizione di quegli pochi che ne fussono oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove il più delle volte quello che fa per lui, offende la città; e quello che fa per la città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere più in potenza o in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso il quale per animo e per virtù d’arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella republica, ma a lui proprio: perché e’ non può onorare nessuno di quegli cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto di loro. Non può ancora le città che esso acquista, sottometterle o farle tributarie a quella città di che egli è tiranno: perché il farla potente non fa per lui; ma per lui fa tenere lo stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca lui. Talché, de’ suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la sua patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tyrannide. Non è maraviglia, adunque, che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassono i tiranni ed amassino il vivere libero, e che il nome della libertà fusse tanto stimato da loro: come intervenne quando Girolamo, nipote di Ierone siracusano, fu morto in Siracusa, che, venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non era molto lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e pigliare l’armi contro agli ucciditori di quello; ma come ei sentì che in Siracusa si gridava libertà, allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giù l’ira, contro a’ tirannicidi, e pensò come in quella città si potessi ordinare uno vivere libero. Non è maraviglia ancora, che e’ popoli faccino vendette istraordinarie contro a quegli che gli hanno occupata la libertà. Di che ci sono stati assai esempli, de’ quali ne intendo referire solo uno, seguito in Corcira, città di Grecia, ne’ tempi della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa quella provincia in due parti, delle quali l’una seguitava gli Ateniesi l’altra gli Spartani, ne nasceva che di molte città, che erano infra loro divise, l’una parte seguiva l’amicizia di Sparta, l’altra di Atene: ed essendo occorso che nella detta città prevalessono i nobili, e togliessono la libertà al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e, posto le mani addosso a tutta la Nobilità, gli rinchiusero in una prigione capace di tutti loro; donde gli traevono a otto o dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio in diverse parti, e quegli con molti crudeli esempli facevano morire. Di che sendosi, quelli che restavano, accorti, deliberarono in quanto era a loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa: ed armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi volevano entrare, la entrata della prigione difendevano; di modo che il popolo, a questo romore fatto uno concorso, scoperse la parte superiore di quel luogo, e quegli con quelle rovine suffocò. Seguirono ancora in detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili; talché si vede essere vero che con maggiore impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta, che quella che ti è voluta tôrre.

Pensando dunque donde possa nascere, che, in quegli tempi antichi, i popoli fossero più amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversità della educazione nostra dall’antica. Perché, avendoci la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l’onore del mondo: onde i Gentili, stimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare da molte loro constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de’ sacrifizi loro, alla umiltà de’ nostri; dove è qualche pompa più delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui non mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiugneva l’azione del sacrificio pieno di sangue e di ferocità, ammazzandovisi moltitudine d’animali; il quale aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane: quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l’università degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia effeminato il mondo, e disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio, e non secondo la virtù. Perché, se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l’amiamo ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e sì false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante republiche quante si vedeva anticamente; né, per consequente, si vede ne’ popoli tanto amore alla libertà quanto allora: ancora che io creda più tosto essere cagione di questo, che lo Imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e tutti e’ viveri civili. E benché poi tale Imperio si sia risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere insieme né riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello Imperio. Pure, comunque si fusse, i Romani in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di republiche armatissime ed ostinatissime alla difesa della libertà loro. Il che mostra che il popolo romano sanza una rara ed estrema virtù mai non le arebbe potute superare.

E per darne esemplo di qualche membro, voglio mi basti lo esemplo de’ Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa, che fussero sì potenti, e l’arme loro sì valide, che potessono infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a’ Romani (che fu uno spazio di quarantasei anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute nel paese loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante cittadi e tanti uomini, essere quasi che disabitato; ed allora vi era tanto ordine e tanta forza, che gli era insuperabile, se da una virtù romana non fosse stato assaltato. E facil cosa è considerare donde nasceva quello ordine, e donde proceda questo disordine; perché tutto viene dal vivere libero allora, ed ora dal vivere servo. Perché tutte le terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti grandissimi. Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e’ connubi più liberi, più desiderabili dagli uomini: perché ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; e ch’ei conosce non solamente che nascono liberi e non schiavi, ma ch’ei possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti. Perché ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a’ privati e publici commodi; e l’uno e l’altro viene maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli paesi che vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene, quanto più è dura la servitù. E di tutte le servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una republica: l’una, perché la è più durabile, e manco si può sperare d’uscirne; l’altra, perché il fine della republica è enervare ed indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta, quando quel principe non sia qualche principe barbaro, destruttore de’ paesi e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono i principi orientali. Ma s’egli ha in sé ordini umani ed ordinari, il più delle volte ama le città sue suggette equalmente, ed a loro lascia l’arti tutte, e quasi tutti gli ordini antichi. Talché, se le non possono crescere come libere, elle non rovinano anche come schiave; intendendosi della servitù in quale vengono le città servendo a un forestiero, perché di quelle d’uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considererà, adunque, tutto quello che si è detto, non si maraviglierà della potenza che i Sanniti avevano, sendo liberi, e della debolezza in che e’ vennono poi, servendo: e Tito Livio ne fa fede in più luoghi, e massime nella guerra di Annibale, dove e’ mostra che, sendo i Sanniti oppressi da una legione di uomini che era in Nola, mandarono oratori ad Annibale, a pregarlo che gli soccorressi; i quali, nel parlare loro, dissono, che avevano per cento anni combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro capitani, e molte volte aveano sostenuto dua eserciti consolari e dua consoli, e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non si potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era in Nola.