Dialogo del reggimento di Firenze/Proemio
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PROEMIO
È tanto bello, tanto onorevole e magnifico pensiero el considerare circa e’ governi publichi, da’ quali depende el bene essere, la salute, la vita degli uomini e tutte le azione egregie che si fanno in questo mondo inferiore, che ancora che non s’avessi speranza alcuna che quello che si pensa o si disegna potessi mai succedere, non si può dire se non che meriti di essere laudato chi applica l’animo e consuma ancora qualche parte del tempo nella contemplazione di sí onesta e sí degna materia; sanza che sempre se ne può cavare documenti accommodati ed utili a molte parte del vivere nostro. Se giá non crediamo che Platone, quando pensò e scrisse della republica, lo facessi mosso da speranza che quel governo immaginato da lui avessi a essere introdotto e seguitato dagli ateniesi; e’ quali a tempo suo erano in modo diventati licenziosi ed insolenti, che, non che egli tentassi di fargli ricevere buona amministrazione, ma, come si truova scritto in una sua pistola, disperato che mai piú s’avessino a governare bene, non volle mai mescolarsi né travagliarsi della loro republica. Non sará adunche per conto alcuno reprensibile né el pensare né lo scrivere circa el governo della nostra cittá; e molto manco perché, se bene per la autoritá che hanno e’ Medici in Firenze, e per la potenzia grandissima del pontefice paia perduta la libertá di quella, nondimeno per gli accidenti che tuttodí portono seco le cose umane, può a ogn’ora nascere, che cosi come in uno tratto dallo stato populare la venne allo stato di uno, possi ancora con la medesima facilitá ritornare dallo stato di uno alla sua prima libertá. E tanto più, che sanza dubio si può più difficilmente sperare perpetuitá di una famiglia che non si può di una republica; il che se accadessi, potrebbe ancora questo pensiero e discorso non essere del tutto inutile, e massime che, come mostra lo esemplo fresco del tempo in che fu gonfaloniere Piero Soderini, nel quale questa cittá si accostò molto a pigliare forma di buono e laudabile governo, le cose sue non paiono ancora corrotte, né transcorse in modo che sia da disperarsi che non potessino essere capaci di questo bene. Né potrò essere ripreso che io presumma di me stesso, o mi attribuisca troppo, se non essendo di piú ingegno e prudenzia che io mi sia, e stato el piú tempo della etá mia assente dalla patria, mi paia essere sufficiente a dimostrare come s’avessi a introdurre in Firenze uno governo onesto, bene ordinato e che veramente si potessi chiamare libero; il che dalla sua prima origine insino a oggi non è mai stato cittadino alcuno che abbia saputo o potuto fare. Perché in questo discorso non sará parte alcuna di invenzione o giudicio mio, ma sará tutto una sincera e fedele narrazione di quello che altra volta ne fu ragionato da piú nostri cittadini gravissimi e savissimi; el quale ragionamento perché si conservi alla memoria con lo instrumento delle lettere, ho voluto scrivere con quel modo ed ordine che piú volte mi fu recitato da mio padre, che uno fu di coloro che ne parlorono; ancora che, come era consueto di fare el piú delle volte, cercassi piú di intendere la opinione degli altri che dire la sua.
Raccontomini adunche piú volte, come essendo Piero Capponi, Pagolantonio Soderini, cittadini ornatissimi e di grande autoritá, ed egli, andati insieme l’anno 1494 e poche settimane doppo la cacciata di Piero de’ Medici, non so se per voto o per divozione, al nostro tempio di Santa Maria Impruneta, visitorono, nel ritornare, Bernardo del Nero, cittadino giá vecchissimo e molto savio, el quale sequestrato allora dalle faccende publiche per el sospetto grande in che erano quasi tutti quegli che avevano potuto a tempo de’ Medici, si dimorava tranquillamente nella sua villa quivi vicina. Né potrei facilmente dire quale fussi maggiore in mio padre, o el piacere che e’ pigliava dalla memoria di questo ragionamento, che certo era grandissimo, o el dispiacere di considerare lo infelice fine che ebbe Bernardo. El quale essendo si savio, ed avendo quasi come uno oraculo previsto tante cose che poi seguirono, 0 fussi per lo sdegno di qualche ingiuria che nello stato del popolo gli fu fatta, e massime per le molto disoneste gravezze che gli furono poste; o perché disperato che la cittá, che allora era ridotta in grandissime divisione e confusione, si potesse ndurre a uno governo bene ordinato, tornassi con l’animo a’ pensieri di quel vivere nel quale insino da fanciullo era nutrito e che molto era stato amato da lui; o fussi pure perché al fato non si può resistere, non seppe o non potette serrare tanto gli orecchi a chi gli manifestò pratiche che andavano a torno di rimettere Piero de’ Medici, che, non come autore o consultore di cose simili, ma come non rivelatore, fu decapitato.
Ma ritornando al nostro proposito, non mi pare anche Potere essere notato come ingrato, se bene io abbia le grandissime anzi estraordinarie obligazione alla casa de’ Medici, perché dua pontefici di quella casa, Leone prima e poi Clemente, mi hanno adoperato ed onorato eccessivamente, come persona in chi hanno avuto, ed ha piú che mai Clemente, somma confidenzia. Alle quali obligazione non pare che si convenga nutrire pensieri contrari allo stato della casa loro; perché dallo scrivere mio, massime fatto per mio piacere e recreazione né con intenzione di publicarlo, non si può né debbe inferirne che io abbia animo alieno dalla grandezza loro, né che la loro autoritá mi dispiaccia. Se giá per la medesima ragione non vogliamo arguire che a Zenofonte, cittadino ateniese ed amatore come si debbe credere della sua patria, per avere sotto nome di Ciro [scritto] del principato, dispiacessi la libertá di Atene; o che Aristotele, precettore e tanto ubligato a Alessandro Magno, per avere scritto la Politica fussi inimico suo.
Come se la volontá ed el desiderio degli uomini non potessi essere diverso dalla considerazione o discorso delle cose, o come se da questo ragionamento apparissi quale di dua governi male ordinati e corrotti mi dispiacessi manco; se giá la necessitá non mi costrignessi a biasimare manco quello di che s’ha piú speranza potersi riordinare. Perché quando si proponessi uno modo di vivere con la libertá onesta, bene composta e bene ordinata, non potrei essere notato se dicessi piacermi sopra tutti gli altri; essendo notissimo quello che scrivono e’ filosofi delle obligazione che s’hanno con la patria, e di quelle che s’hanno con gli altri; e che essendo nel vivere civile distinti e’ gradi de’ benefici e degli offici degli uomini, non si può chiamare ingratitudine el tenere piú conto del debito ed obligazione che sono maggiore che delle minore. Ma lasciato gli argumenti e le obiezione da canto, diamo principio al ragionamento, el quale io, per discostarmi el manco che ho potuto dalla veritá e dalla forma stessa che ebbe, ho introdotto a modo di dialogo.