Dialoghi dei morti/29
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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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29.
Aiace ed Agamennone.
Agamennone. O Aiace, se tu per furore uccidesti te stesso, ed eri per fare lo stesso giuoco a tutti noi altri, perchè te la pigli con Ulisse, e ieri non lo guardasti neppure in viso, quando discese quaggiù per cercare un oracolo, e non facesti motto ad un compagno d’armi e ad un amico, ma superbamente ti allontanasti a gran passi?
Aiace. Con ragione, o Agamennone: perchè egli fu causa del mio furore, egli solo contese con me per le armi.
Agamennone. E volevi che nessuno te le avesse contese, e pigliartele tutte tu?
Aiace. Sì bene, perchè quell’armatura era roba di casa mia, apparteneva ad un mio cugino. E tutti voi, che eravate uomini d’altro valore, voi non veniste meco a contesa, non entraste in lizza con me. Ma il figliuol di Laerte, al quale tante volte io salvai la vita che stava per essere accoppato dai Frigi, si tenne più prode, e più degno di avere quelle armi.
Agamennone. Dunque la colpa è di Teti, o valoroso; la quale doveva dar quelle armi a te ch’eri parente ed erede, ed ella le portò e le depose in mezzo a noi tutti.
Aiace. No: ma di Ulisse: egli solo stette contro di me.
Agamennone. È perdonabile, o Aiace, era uomo, ed amava la gloria, cosa dolcissima, e per la quale ciascuno di noi ha durate tante fatiche; e poi ti superò, ed innanzi ai Troiani che vi giudicarono.
Aiace. Ricordo chi giudicò contro di me: ma non bisogna sparlar degli Dei. Rappattumarmi con Ulisse, no, o Agamennone, non potrei mai; neppure se me lo comandasse la stessa Minerva.