Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (Rosmini)/Alcune parole preliminari
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Delle cinque piaghe della Santa Chiesa | ► |
1. Trovandomi in una villa del Padovano, io posi mano a scrivere questo libro, a sfogo dell’animo mio addolorato; e fors’anco a conforto altrui.
Esitai prima di farlo; perciocchè meco medesimo mi proponea la questione: «Sta egli bene, che un uomo senza giurisdizione componga un trattato sui mali della santa Chiesa? O non ha egli forse alcuna cosa di temerario a pur occuparne il pensiero, non che a scriverne, quando ogni sollecitudine della Chiesa di Dio appartiene di diritto a’ Pastori della medesima? E il rilevarne le piaghe non è forse un mancare di rispetto agli stessi Pastori, quasichè essi o non conoscessero tali piaghe, o non ponessero loro rimedio?»
A questa questione io mi rispondevo, che il meditare sui mali della Chiesa, anche a un laico non potea essere riprovevole, ove a ciò fare sia mosso dal vivo zelo del bene di essa, e della gloria di Dio; e parevami, esaminando me stesso, per quanto uomo si può assicurare di sè, che non d’altro fonte procedessero tutte le mie meditazioni. Rispondevano ancora, che se nulla v’avea di buono in esse meditazioni, non era cagion di celarlo; e se qualche cosa v’avea di non buono, ciò sarebbe stato rigettato da’ Pastori della Chiesa: che io non pronunciavo con intenzione di decidere cosa alcuna, ma che intendevo anzi, esponendo i miei pensieri, di sottometterli ai Pastori stessi, e principalmente al Sommo Pontefice, i cui venerati oracoli mi saranno sempre norma diritta e sicura, alla quale ragguagliare e correggere ogni mia opinione: che i Pastori della Chiesa, da molti negozii occupati e aggravati, non hanno sempre tutto il comodo di dedicarsi a tranquille meditazioni; e che essi stessi sogliono desiderare, che altri venga lor proponendo e suggerendo quelle riflessioni, che potessero giovar loro nel governo delle loro Chiese particolari e della universale: e finalmente mi si presentavano innanzi agli occhi gli esempii di tanti santi uomini che in ogni secolo fiorirono nella Chiesa, i quali, senza esser Vescovi, come un san Girolamo, un san Bernardo, una santa Caterina ed altri, parlarono però e scrissero con mirabile libertà e schiettezza de’ mali che affliggevano la Chiesa ne’ loro tempi, e della necessità e del modo di ristorarnela. Non già che io mi paragonassi pur da lontano a que’ grandi, ma io pensai, che il loro esempio dimostrava non esser per se riprovevole l’investigare, e il chiamar l’attenzione de’ Superiori della Chiesa sopra ciò che travaglia ed affatica la Sposa di Gesù Cristo.
2. Rassicuratomi sufficientemente con queste considerazioni, che io potea senza temerità dar luogo a’ pensieri, che mi si affollavano nell’animo, sullo stato e condizione presente della Chiesa, e che non era riprensibile cosa nè anco il versarli in carta e altrui comunicarli, mi nasceva un altro dubbio risguardante la prudenza, anzichè l’onestà della cosa. Consideravo, che tutti quelli, i quali hanno scritto di somiglianti materie ne’ tempi nostri, e che si sono proposto e hanno dichiaralo di voler tenere una strada media fra i due estremi, in luogo di piacere alle due potestà, della Chiesa e dello Stato, sono dispiaciuti egualmente all’una ed all’altra: il che mi provava la somma difficoltà che hanno tali materie ad esser trattate con soddisfazione universale; e quindi predicevo a me stesso, che, in luogo di giovare, non avrei forse, in iscrivendo le dette mie meditazioni, se non urtato ed offeso contro a tutte e due le potestà.
Ma a questo, io di nuovo mi replicavo, che io ragionavo in coscienza, e che perciò nessuno aveva ragione di prendersela contro di me quando anche io errassi: che io non cercavo punto il favore degli uomini, nè alcun vantaggio temporale; e perciò, che se gli uomini delle due parti l’avessero presa contro di me, io sarei stato compensato dal testimonio della mia coscienza, e dall’aspettazione del giudizio inappellabile.
3. D’altra parte, facevo meco stesso ragioni, quali potessero esser queste cose di cui si dovessero poter offender gli uomini delle due parti.
Dalla parte dello Stato, io consideravo, che una cosa sola poteva dispiacere ad alcuni, cioè il non saper io approvare la nomina de’ Vescovi lasciata in mano alla potestà secolare. Ma se io disapprovo un sì fatto privilegio, consideravo, io sono altresì persuaso intimamente, che egli non è meno funesto alla Chiesa, che allo Stato; e che un grave errore politico è quello di credere il contrario; e le ragioni che io ho alle mani di questo apparente paradosso, ed ho esposte nel presente libro, sono tali, che io mi posso appellare a qualsiasi uomo di Stato, il quale sappia approfondire una questione e vincere per forza di mente i comuni pregiudizii, che sappia vedere le conseguenze lontane di un principio politico, che sappia calcolare e accordare insieme tutte le cause concomitanti, dalle quali sole si può predire e misurare l’effetto totale di una qualsiasi massima di Stato. Ciò posto, io penso di dimostrare non minor premura pel bene dello Stato, che pel bene della Chiesa, in sostenendo una sì fatta opinione; e perciò i Sovrani non potranno ragionevolmente avere a male ciò che io dico, ma anzi ben riceverlo. Tutto al più, chi è di contrario avviso, mi opporrà, che io ne so poco di politica; ma questo mio poco sapere sarà mai giusta ragione di farmi la guerra? Perocchè anche in politica, diceva un tale, la va bene spesso come la s’intende.
4. Dalla parte della Chiesa, io non trovavo cosa che potesse altrui dispiacere nella materia di questo libro, se non forse ciò che accenno intorno all’eccesso delle riserve pontificie nelle elezioni. Ma d’altra parte, questo abuso non appartiene più al tempo presente, ma alla storia. E tutti gli nomini di buon senso converranno meco che, ove il filo del discorso l’esiga, non è punto da temersi il confessare ingenuamente così palesi abusi; perocchè in così facendo, si manifesta che noi non proteggiamo in favore degli uomini e delle loro opere, ma che la sola verità e la causa di Dio ci sta sul cuore. Per altra parte, pareami che non mi dovesse trattenere dallo scrivere, la noia ch’io potessi recare a persone piuttosto di buone intenzioni, che di ampie vedute, avendo ragion ferma di credere che non fosse per dispiacere il mio scritto alla Santa Sede, al cui giudizio intendo sempre di sottomettere ogni cosa mia; giacchè il pensare della Santa Sede io l’ho sempre conosciuto per nobile dignitoso, e sommamente consentaneo alla verità ed alla giustizia. Ora io non chiamavo un abuso se non ciò che i sommi Pontefici hanno riconosciuto per tale, e come tale corretto. Ricorrevami alla mente, fra l’altre cose, quella insigne Congregazione di Cardinali, Vescovi e Religiosi, a cui Paolo iii l’anno 1537, commise, sotto giuramento, di dover cercare, e manifestare liberamente a Sua Santità tutti gli abusi e deviazioni dalla retta via, introdottisi nella stessa corte romana. Non potevano darsi persone più rispettabili di quelle che la componevano: perocchè entravano in essa quattro de’ più insigni Cardinali, cioè il Contarini, il Caraffa, il Sadoleto e il Polo; tre de’ più dotti Vescovi, cioè Federico Fregoso di Salerno, Girolamo Alessandro di Brindisi, Giovammatteo Giberti di Verona; con questi si accompagnavano il Cortesi abate di S. Giorgio di Venezia, e il Badia maestro del sacro Palazzo, che furono poscia ambedue Cardinali. Ora questi uomini sommi, per dottrina, per prudenza e per integrità, i cui nomi valgono più di qualsivoglia elogio, adempirono fedelmente la commissione dal Pontefice ricevuta, e non ommisero punto di segnalare al santo Padre in fra i sommi abusi quello delle grazie espettative e delle riserve, e tutto ciò che ci cadea di difettoso nella collazione de’ benefizî. Non ommisero nè anco di scoprire con acuto sguardo e additare la profonda radice di tali abusi; e indicarono quella appunto che suol trarre dalla dritta via nell’uso del loro potere sì lo Stato, che i ministri della Chiesa, e che anch’io sono per tale venuto indicando, cioè «l’adulazione raffinata degli uomini di legge.» E le parole che usarono su questo argomento sapientissimi Consultori, nella relazione che sottoposero al Pontefice, non possono essere certamente più franche ed efficaci; perocchè esse dicono così: «Tua Santità ammaestrata dallo Spirito divino, che, come dice Agostino, parla ne’ cuori senza strepito alcuno di parole, ben conosce quale sia stato il principio di questi mali, cioè come alcuni Pontefici suoi predecessori si ragunassero di que’ maestri secondo i lor desiderî, che sogliono stropicciar gli orecchi, come dice l’Apostolo; non per doverne imparare ciò che far dovessero, ma per trovar ragione nello studio e nella scaltrezza di quelli, da far lecito ciò che piaceva: di che avvenne (senza contare che l’adulazione tien dietro ad ogni principato come ombra al corpo, e che fu sempre oltre modo malagevole udire le verità agli orecchi de’ Principi) che incontanente uscissero de’ dottori, i quali insegnassero essere il Papa padrone di tutti i benefici, e perciò (potendo vendere il padrone quello che è suo, senza ingiustizia) seguirne, che nel Pontefice non cada simonia: perciò ancora, la volontà del Pontefice, quale si voglia, esser regola secondo la quale dirigere egli potesse le sue operazioni ed azioni. Laonde ciò che era libito, facevasi licito in tal legge. Sicchè di questo fonte, o santo Padre, quasi dal caval trojano, sboccarono nella Chiesa di Dio tanti abusi e tanti gravissimi morbi, de’ quali or noi la veggiamo aggravata, e quasi sfidata, e n’andò la fama di tali vergogne (il creda la Santità tua a chi lo sa) fino agl’infedeli, che per questa cagione appunto mettono la cristiana religione in deriso di modo che per noi è che il nome di Cristo si bestemmia fra le nazioni.»
Dopo le quali considerazioni, io acquetai dentro di me ogni dubbiezza e con sicuro animo e libera mano tolsi a scrivere questo piccol trattato, che prego Iddio d’indirizzare egli alla sua gloria, e a vantaggio della sua Chiesa.
- Correttola, 18 novembre mdcccxxxii.