Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo XIII
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Capitolo Decimoterzo
Del lusso.
Non credo che mi sará difficile il provare che il moderno lusso in Europa sia una delle principalissime cagioni, per cui la servitú, gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai nostri popoli, i quali perciò non pensano né si attentano di scuoterla veramente. Né intendo io di trattare la questione, oramai da tanti egregi scrittori esaurita, se sia il lusso da proscriversi o no. Ogni privato lusso eccedente suppone una mostruosa disuguaglianza di ricchezze fra cittadini, di cui la parte ricca giá necessariamente è superba, necessitosa e avvilita la povera, e corrottissime tutte del pari. Onde, posta questa disuguaglianza, sará inutilissimo e forse anche dannoso il voler proscrivere il lusso: né altro rimedio rimane contr’esso, che il tentare d’indirizzarlo per vie meno ree ad un qualche scopo men reo. M’ingegnerò io bensí di provare in questo capitolo che il lusso, conseguenza naturalissima della ereditaria nobiltá, nelle tirannidi riesce anch’egli una delle principalissime basi di esse; e che dove ci è molto lusso non vi può sorgere durevole libertá; e che dove ci è libertá, introducendovisi moltissimo lusso, questo in brevissimo tempo corromperla dovrá e quindi annullarla.
Il primo e il piú mortifero effetto del privato lusso si è che quella pubblica stima che nella semplicitá del modesto vivere si suole accordare al piú eccellente in virtú, nello splendido vivere vien trasferita al piú ricco. Né altronde si ricerchi la cagione delle servitú in quei popoli fra cui le ricchezze danno ogni cosa. Ma pure, la uguaglianza dei beni di fortuna essendo presso ai presenti europèi una cosa chimerica affatto, si dovrá egli conchiudere che non vi può essere libertá in Europa, perché le ricchezze vi sono tanto disuguali? e possono elle non esserlo, atteso il commercio, e il lucro delle pubbliche cariche? Rispondo che difficilmente vi può essere o durare una vera politica libertá, lá dove la disparitá delle ricchezze sia eccessiva; ma che pure, due mezzi vi sono per andarla strascinando (dove ella giá fosse allignata) in mezzo a una tale disparitá, ancorché il lusso sterminatore tutto dí la libertá vi combatta. Il primo di questi mezzi sará che le buone leggi abbiano provveduto, o provvedano che la eccessiva disuguaglianza delle ricchezze provenga anzi dalla industria, dal commercio e dalle arti, che non dall’inerte accumulamento di moltissimi beni di terra in pochissime persone, alle quali non possono questi beni pervenire in tal copia, senza che infiniti altri cittadini non siano spogliati della parte loro. Con un tale compenso, le ricchezze dei pochi non occasionando allora la povertá totale dei piú, verrá pure ad esservi un certo stato di mezzo, per cui quel tal popolo sará diviso in pochi ricchissimi, moltissimi agiati, ed in pochi pezzenti. Tuttavia, questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno sussistere, se non in una repubblica; in vece che la divisione in alcuni ricchissimi e in moltissimi pezzenti dée nascere, e tutto dí si vede sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale disproporzione si corroborano. Il secondo mezzo di rettificare il lusso, e diminuirne la maligna influenza sul dritto vivere civile, sará di non permetterlo nelle cose private, e d’incoraggiarlo e onorarlo nelle pubbliche. Di questi due mezzi le poche repubbliche d’Europa si vanno pur prevalendo, ma debolmente ed invano; come quelle che sono corrottissime anch’esse dal fastoso e pestifero vivere delle vicine tirannidi. E questi altresí sono i due mezzi che i nostri tiranni non adoprano e non debbono adoprar mai contro al lusso; come quelli che in esso ritrovano uno dei piú fidi satelliti della tirannide.
Un popolo misero e molle, che si sostenta col tessere drappi d’oro e di seta, onde si cuoprano poi i pochi ricchi orgogliosi, di necessitá un tal popolo viene a stimar maggiormente coloro che, piú consumandone, gli dan piú guadagno. Cosí, viceversa, il popolo romano che solea ritrarre il suo vitto dalle terre conquistate coll’armi, e fra lui distribuite poi dal senato, sommamente stimava quel console o quel tribuno, per le di cui vittorie piú larghi campi gli venivano compartiti.
Essendo dunque dal privato lusso sovvertite in tal modo le opinioni tutte del vero e del retto, un popolo che onora e stima maggiormente coloro che con maggiore ostentazione di lusso lo insultano, e che effettivamente lo spogliano, benché in apparenza lo pascano; un tal popolo, potrá egli avere idea, desiderio, diritto e mezzi di riassumere libertá?
E que’ grandi, (cioè chiamati tali) che i loro averi a gara profondono, e spesso gli altrui, per vana pompa assai piú che per vero godimento; quei grandi, o sia ricchi, a cui tante superfluitá si son fatte insipide ma necessarie, que’ ricchi in somma che a mensa, a veglia, a’ festini ed a letto, traggono fra gli orrori della sazietá la loro effeminata, tediosa ed inutile vita; que’ ricchi, potrann’eglino, piú che la vilissima feccia del popolo, innalzarsi a conoscere, a pregiare, desiderare e volere la libertá? Costoro primi ne piangerebbero, e assumere non saprebbero esistenza nessuna, se non avessero un intero ed unico tiranno che, perpetuando il dolce loro ozio, alla lor dappocaggine comandasse.
Inevitabile dunque, e necessario è il lusso nelle tirannidi. E crescono in esse tutti i vizi in proporzione del lusso, che è il principe loro; del lusso, che tutti li nobilita, coll’addobbarli; che a tal segno confonde i nomi delle cose che la disonestá dei costumi chiamasi fra’ ricchi galanteria, l’adulare un saper vivere, l’esser vile prudenza, l’esser infame necessitá. E di questi vizi tutti, e dei molti piú altri ch’io taccio, i quali hanno tutti per base e per immediata cagione di lusso, chi maggiormente ne gode, chi ne ricava piú manifesto e immenso il vantaggio? I tiranni, che da essi ricevono, e per via di essi in eterno si assicurano, il pacifico ed assoluto comando.
Il lusso dunque (che io definirei «l’immoderato amore ed uso degli agi superflui e pomposi»), corrompe in una nazione ugualmente tutti i ceti diversi. Il popolo che ne ritrae anch’egli qualche apparente vantaggio, e che non sa e non riflette che per lo piú la pompa dei ricchi non è altro che il frutto delle estorsioni fatte a lui, passate nelle casse del tiranno, e da esso quindi profuse fra questi secondi oppressori; il popolo è anch’egli necessariamente corrotto dal tristo esempio dei ricchi, e dalle vili oziose occupazioni con che si guadagna egli a stento il suo vitto. Perciò quel fasto dei grandi, che dovrebbe sí ferocemente irritarlo, al popolo piace non poco, e stupidamente lo ammira. Che gli altri ceti debbano essere corrottissimi dal lusso che praticano, inutile mi pare il dimostrarlo.
Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è manifestamente impossibile che ella diventi o duri mai libera, se da prima il lusso, che è il piú feroce corruttore di essa, non si sbandisce. Principalissima cura perciò del tiranno debb’essere, ed è (benché alle volte la stolta ostentazione del contrario ei vada facendo) l’incoraggire, propagare ed accarezzare il lusso, da cui egli ritrae piú assai giovamento che da un esercito intero. E il detto fin qui basti per provare che non v’ha cosa nelle nostre tirannidi che ci faccia piú lietamente sopportare e anche assaporare la servitú, che l’uso continuo e smoderato del lusso; come pure, a provare ad un tempo, che dove radicata si è questa peste, non vi può sorgere od allignar libertá.
Si esamini ora se lá dove giá è stabilita una qualunque libertá, possa allignare il lusso: e qual dei due debba cedere il campo. S’io bado alle storie, in ogni secolo, in ogni contrada, vedo sempre sparire la libertá da tutti quei governi che han lasciato introdurre il lusso dei privati; e mai non la vedo robustamente risorgere fra quei popoli che son giá corrotti dal lusso. Ma, siccome la storia di tutto ciò che è stato non è forse assolutamente la prova innegabile di tutto ciò che può essere, a me pare che alla disuguaglianza delle ricchezze nei cittadini non ancora interamente corrotti, in quel brevissimo intervallo in cui possono essi mantenersi tali, i governi liberi non abbiano altro rimedio da opporre, piú efficace che la semplice opinione. Quindi volendo essi concedere a queste mal ripartite ricchezze uno sfogo che ad un tempo circolare le faccia, e non distrugga del tutto la libertá, persuaderanno ai ricchi d’impiegarle in opere pubbliche; onoreranno questo solo loro fasto, annettendo un’idea di disprezzo a qualunque altro uso che ne facessero i ricchi nella loro privata vita, oltre quella decenza e quegli agi ragionevoli, richiesti dal loro stato e compatibili colla pubblica decenza. I liberi governi persuaderanno ad un tempo agli uomini poveri, (non intendo con ciò dire ai pezzenti) che non è delitto né infamia l’essere tali; e lo persuaderan facilmente, coll’accordare a questi non meno che agli altri l’adito a tutti gli onori ed uffizi. E non per insultare alla miseria escludo io principalmente i necessitosi, ma perché costoro, come troppo corrottibili, e per lo piú vilmente educati, non sono meno lontani dalla possibilitá del dritto pensare e operare, di quel che lo siano, per le ragioni appunto contrarie, i ricchissimi.
Ma queste saggie cautele riusciranno puranche inutili a lungo andare. La natura dell’uomo non si cangia; dove ci sono ricchezze grandi e disugualmente ripartite, o tosto o tardi, dée sorgere un gran lusso fra i privati, e quindi una gran servitú per tutti. Questa servitú difficilmente da prima si può allontanare da un popolo dove alcuni ricchissimi siano, e poverissimi i piú; ma quando poi ella si è cominciata a introdurre, provato che hanno i ricchissimi quanto la universal servitú riesca favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si adoprano affinch’ella non si possa piú scuoter mai.
Sarebbe dunque mestieri, a voler riacquistare durevole libertá nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno distruggere, ma pur troppo anche i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.