Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/14. Carlo Emmanuele I

14. Carlo Emmanuele I

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[p. 58 modifica]14. Carlo Emmanuele I [1580-1630]. — La differenza tra Emmanuel Filiberto e gli altri legislatori italiani de’ venti anni addietro si vede chiara all’effetto ne’ primi lor successori. Progredí e fecesi grande quel di Piemonte; scesero e s’impicciolirono via via i Medici e gli altri. Salito a una signoria rinforzata dagli ordinamenti di pace, dagli apparecchi di guerra fatti dal padre, si potrebbe dire che Carlo Emmanuele volle essere l’Alessandro di quel Filippo. E sarebbegli forse riuscito, se avesse avuto un solo scopo, l’Italia. Ebbelo, ma con un secondo: farsi grande di lá dell’Alpi, ed anche piú lontano. Perciò non s’avanzò come avrebbe potuto verso lo scopo principale, e lasciò nome d’ambizioso piú che di grande (benché datogli questo da’ contemporanei), e d’avventato piú che di forte, ed anche di doppio piú che di leale. Leali, forti e grandi appaiono e sono piú facilmente gli uomini d’un solo scopo; compatiti, è vero, e derisi da’ [p. 59 modifica]faccendieri, dagli enciclopedici, e dagli incostanti, che ne han molti e vari; ed anche piú dai pigri di spirito e da’ gaudenti, che non vogliono e non possono averne nessuno, e vivono alla giornata. Carlo s’avventò prima contro a Ginevra, perduta da sua famiglia fin dal 1536; e non gli riuscendo, tornò contro essa ad ogni tratto per vent’anni e piú, fino al 1603, che rinunciovvi e fece pace con essa. Intanto aprí guerra contro Francia; ed approfittando delle contese civili e religiose che ferveano colá sotto ad Enrico III, ultimo de’ Valois, s’avventò contra Saluzzo, quella spina francese che rimaneva in corpo alla monarchia piemontese. Occupolla a forza nel 1588; e quindi una lunga e varia guerra su tutta la linea dell’Alpi, che condusse egli di qua, e Lesdiguières di lá. Nel 1590, occupò Aix, Marsiglia, e si lasciò da alcuni cattivi francesi acclamare conte di Provenza. Ma ciò era nulla; mirava alla corona di Francia che altri cattivi volevan tôrre ad Enrico IV; e perciò, non solo combatté, che era giá stolto e male, ma intrigò, che era peggio. Fu pessimo, se è vero, quel che segue: che fatta pace a Vervins nel 1598, e lasciata a giudicio del papa la lite di Saluzzo, e andato Carlo a Parigi nel 1599, ivi entrasse nella congiura del Biron contra al re, alleato ed ospite suo. Ed egli negò sempre e si turbò di tale accusa; ma resta in lui la macchia d’esservisi esposto con gli intrighi precedenti. Ad ogni modo, Enrico IV, principe poco tollerante, e che tagliava coll’ardita franchezza le perfidie reali o temute, ruppe la guerra nuovamente nel 1600, ed invase Savoia. Seguiva finalmente il trattato di Lione [17 gennaio 1601], per cui casa Savoia cedette Bressa, Bugey e Valromey, province in seno a Francia; e Francia cedette Saluzzo, provincia in seno a Italia. Savoia perdeva in territorio ed anime; ma vi guadagnò di quadrare i suoi Stati italiani, di non aver in corpo un vicino potente e cosí suo nemico naturale, e di farsene anzi un naturale amico contro al nemico anche piú naturale suo e d’Italia, casa d’Austria. Fu detto che Arrigo IV avea fatto un cambio da mercante, e Carlo Emmanuele uno da principe e politico; ma non è vero. Cambiando ciascuno province innaturali con province naturali a’ loro Stati, vi guadagnarono amendue; e [p. 60 modifica]questi sono sempre i migliori e piú durevoli trattati. Il fatto sta che d’allora in poi Carlo Emmanuele s’accostò a Francia, e rimase per lo piú con essa. E questa alleanza fu per produrre cose grandi, quando Enrico IV, quel gran re che avea pacificata ed ordinata Francia, si volse a voler riordinar Europa contro alla preponderanza delle due case Austriache. Seguinne [25 aprile 1610] quel trattato di Bruzolo, il quale, dice uno scrittore lombardo, «trasformava i duchi di Savoia in re de’ lombardi». Ma fu ucciso allora, come ognun sa, Enrico IV, e non se ne fece altro; e «quel regno de’ lombardi rimase ne’ duchi di Savoia un desiderio che non si spense mai». Ad ogni modo, da questi due trattati di Lione e di Bruzolo fecesi un gran progresso nella politica, e, se si voglia, nell’ambizione di casa Savoia: ché ella fu d’allora in poi costantemente, esclusivamente italiana. Morto, nel 1587, Gugliemo Gonzaga, duca di Mantova e marchese di Monferrato, e nel 1612 il figlio di lui Vincenzo, e nel medesimo anno il figlio di questo, Francesco, che lasciava una sola figliuola fanciulla, succedette Ferdinando cardinale; il quale, legato negli ordini, non poteva aver figliuoli, ed a cui rimaneva sí un fratello Vincenzo, ma anch’esso senza figliuoli, ondeché la successione eventuale rimaneva in Maria, quell’ultima fanciulla de’ Gonzaga. E giá due volte casa Savoia avea preteso a tal successione; pretesevi ora Carlo Emmanuele, e volle almeno la tutela di Maria, per farla sposare al proprio figlio, e riunir cosí tutti i diritti. Negatagli, s’avventò, al solito suo, sul Monferrato [1613]. Spagna nol volle soffrire; seguinne una guerra di quattro anni, seguiron trattati vari; quel del 1617 restituiva lo statu quo; ma intanto un duca di Savoia solo avea resistito a Spagna. Poco appresso sollevavasi la Valtellina cattolica contra i grigioni protestanti e signori di essa. La prima fu aiutata da Spagna, i secondi da Francia, Savoia e Venezia. Riaprissi ed estesesi la guerra. Savoia e Francia fecero un’impresa insieme contra Genova; e qui di nuovo cadde il duca in sospetto di complicitá ad una congiura contro a quella repubblica. Ritrassesi poi Francia di quella guerra, e rifecesi pace a Monzone nel 1626, tra le due potenze grosse; e le piccole, Savoia fra le altre, [p. 61 modifica]dovettersi acquetare. Morto poi, nel medesimo anno, il cardinale e duca Ferdinando Gonzaga, e nel 1627 Vincenzo fratello di lui, succedettero lor nipote Maria e il marito di lei Carlo Gonzaga giá duca di Nevers, e cosí tutto francese. Fu per esso Francia, e furono contro esso Austria ed il mutabile Savoiardo, tratto e dall’ambizione antica d’aver il Monferrato, e dall’essergliene data una parte fin d’allora. Guerreggiossi acremente in tutto Piemonte; e il vecchio e infermo ma ancora prode duca vinse i francesi nel 1628, ne fu vinto nel 1629, perdette Savoia, Pinerolo, Saluzzo; e stava alla riscossa sulla Maira quando, infermato, morí ai 26 luglio 1630. Pochi dí prima [18 luglio], era stata presa Mantova dagli spagnuoli alleati suoi. Pro’ guerriero, buon capitano secondo i tempi, ardito, pronto, bel parlatore, fu amato da’ soldati ch’ei pagava male ma conduceva bene, adorato da’ sudditi a cui procacciava le miserie, ma l’operositá, ma l’alacritá, ma l’onor della guerra; continuò, compiè gli ordinamenti civili del padre; parlò, operò italiano, protesse molti illustri, Tasso, Tassoni, Marini, Chiabrera, Botero; in una parola, raccolse piú che mai in sua casa e suoi popoli tutto quello che rimaneva di vita nazionale durante il mezzo secolo di suo regnare. È impossibile non far come i sudditi di lui, non amarlo a malgrado tutti i suoi difetti: fu uomo di buona volontá italiana. — Il rimanente dell’Italia d’allora val pochi cenni. Oltre la successione dei Gonzaga che turbò l’Italia, due altre ne furono che senza turbarla ne mutarono alquanto la distribuzione. Succeduto ad Alfonso II, duca di Ferrara e Modena, Cesare suo figliuolo naturale [1597], il papa non gli volle lasciar Ferrara feudo pontificio; e disputatone alquanto, l’ebbe per trattato [1598]; e la casa d’Este rimase bastarda e ridotta a Modena, fino a che s’estinse. — In Urbino, avendo il vecchio Francesco Maria II della Rovere perduto nel 1623 il figliuolo unico che lasciava una figliuola unica granduchessa di Toscana, ei rinunciò al ducato, feudo pontificio ancor esso, che fu riunito cosí agli Stati della Chiesa. — In Parma e Piacenza, ad Ottavio Farnese, morto nel 1586, succedette Alessandro figliuolo di lui, che fu illustre capitano negli eserciti spagnuoli [p. 62 modifica] e combatté a Lepanto, ne’ Paesi bassi, di cui fu governatore, ed in Francia. E per questi meriti fu lasciata finalmente, fin dal tempo di suo padre [1585], la cittadella di Piacenza a’ Farnesi. Ad Alessandro, morto nel 1592, succedettero Ranuccio II figliuolo di lui, e morto questo nel 1622, il figliuolo di lui Odoardo. — In Toscana, a Francesco I, morto (dicesi di veleno) nel 1587 senza figliuoli, succedette il fratello di lui Ferdinando I, giá cardinale, che fu buon amministratore dello Stato, buon promotor di commerci ed agricoltura e lettere, e fece guerra ai ladri interni ed ai barbareschi, a cui prese una volta Bona in Africa. Al quale morto nel 1609, succedette Cosimo II, figliuolo degno di lui. Al quale, morto nel 1622, succedette il fanciullo e dammeno Ferdinando II. E tutti o quasi tutti questi principotti furono molto protettori di lettere, ma al modo nuovo che diremo poi. — E tali pure i papi di questo tempo: Gregorio XIII che riformò il calendario nel 1582, e pontificò fino al 1585; Sisto V [Peretti, dal 1585 al 1590], che fu il gran distruttor de’ ladri, il grande avanzator dell’opere d’Alessandro VI e di Giulio II a pacificar gli Stati della Chiesa, del resto persecutor d’eretici in Germania e Francia, grande edificator di monumenti in Roma; Urbano VII [Castagna], che regnò pochi giorni nel 1590; Gregorio XIV [Sfondrato, 1590-1591], che compiè l’opera di Sisto V contro ai ladri e banditi; Innocenzo IX [Facchinetti, 1591]; Clemente VIII [Aldobrandini, 1592-1605], che ricevette in grembo alla Chiesa Enrico IV di Francia, e riuní Ferrara; Leone XI [Medici, 1605]; Paolo l’[Borghese, 1605-1621], che scomunicò Venezia, e finito San Pietro, vi pose suo nome; Gregorio XV [Ludovisi, 1621-1623], istitutor della congregazione della propaganda; Urbano VIII [Barberini, 1623-1644]. I nomi de’ quali, rimasti quasi tutti di famiglie grandi per ricchezze, accennano che parecchi di questi papi non si salvarono dal vizio del secondo nepotismo; ma fuor di ciò furono tutti buoni pontefici, e, secondo i tempi, buoni principi. — Di Venezia, sarebbe a dire quella accanita disputa ch’ella ebbe [1606-1607] con papa Paolo V, e in che si fece famoso fra Paolo Sarpi di lei teologo. Gli storici, le memorie del tempo, e Botta poi, si fermano lungamente in essa, ed in alcune altre [p. 63 modifica]che furono e prima e dopo tra’ papi e principi italiani. Ma noi, oltreché v’avremmo poco spazio, e che tali contese tra le potenze temporali e la ecclesiastica ne vorrebbon pur molto per essere bene spiegate e capite, confessiamo di porvi oramai poca importanza. Queste dispute, per qualche ecclesiastico o qualche affare che i tribunali civili ed ecclesiastici avocavano a un tempo a sé, per li diritti d’asilo nelle chiese, per istabilire od estendere il tribunale dell’Inquisizione, parvero, in vero, grossi affari a que’ tempi ove non n’eran de’ grandi; e son segni appunto di ciò. Ma ciò detto, non mi paiono piú importanti che tanti altri affari speciali di giurisprudenza o legislazione civile o militare o marinaresca, che tralasciamo per forza. Ché anzi, se abbiamo a dir tutto il pensier nostro, crediamo che parecchi di coloro i quali s’estendono in ciò, ciò facciano (a malgrado la noia propria e de’ leggitori) per rivolgergli a quel pochissimo che resta di tali dispute a’ nostri dí, ed in che essi pongono tuttavia un’importanza che noi non sappiamo assolutamente vedere. Non è la potenza ecclesiastica l’usurpatrice de’ nostri dí; tal non era nemmeno nel Seicento; giá difendevasi, indietreggiando dalle sue pretensioni antiche fin d’allora, ed ella si difende ed indietreggia ora piú che mai; ondeché, tutto ciò che si rivolge d’ire e d’attenzioni contro ad essa, sono ire ed attenzioni perdute contro a’ veri usurpatori. «Dividi e impera» è vecchio arcano d’imperio, e messo in pratica fino a ieri ed oggi. Ed egli implica e fa lecito e debito il suo contrario, l’arcano di liberazione, «uniamoci per liberarci»; uniamoci principi e popoli, nobili e non nobili, tutti gli educati, e gli ineducati stessi, educandoli; e militari e civili, e massime laici ed ecclesiastici, secolari e regolari, fino ai frati, fino ai gesuiti, fino ai piú esagerati, e giá colpevoli di lá o di qua, che vogliano unirsi a virtuosamente operar per la patria, fino a coloro che avessero perseguitati od anche calunniati non solamente noi, ma gli stessi amati da noi1. Piú attenzione forse [p. 64 modifica]meriterebbe, se ne avessimo luogo, una guerra tra Venezia e gli uscocchi, pirati dell’Adriatico [1601-1617], protetti o almen tollerati da casa d’Austria; un trattato fatto a Madrid [1617] vi pose fine. E l’anno appresso [1618] successe quella congiura che parve mirare a non meno che alla distruzione della repubblica; e che compressa, secondo l’uso di lei, con prontezza e misterio, resta dubbio quanto fosse vera e pericolosa, e se di semplici venturieri, o se promossa da Spagna, o se anzi da uno o due dei governatori spagnuoli in Italia che volessero ribellarsi e farsi essi signori. — Del resto, i due Stati spagnuoli, Milano e il Regno, peggiorarono via via. A Filippo II, il Tiberio della monarchia spagnuola, erano succeduti Filippo III [1598] e Filippo IV [1621], che ne furono poco piú che i Claudi o i Vitelli. Governaron per essi un duca di Lerma, un d’Uzeda e un conte duca d’Olivarez, via via piú assoluti a Madrid, al centro di quel grande imperio. S’imagini ognuno come governassero i viceré e governatori lontani. Depredavansi le entrate ordinarie, supplivasi con istraordinarie; vendevansi, ripiglianvansi i feudi, si alzavano, s’esageravano gli appalti, non si badava ai popoli ma all’erario, o piuttosto questo stesso non era se non un pretesto, una via per cui passavano le ricchezze, cioè, senza metafora, il sangue de’ popoli. Ma a che perdere spazio in tutto ciò? Quando anche n’avessimo piú, non potremmo far meglio che rimandar i leggitori all’immortal ritratto fattone dal Manzoni. Niuna storia, nemmen quella splendidissima di Botta, può arrivar a dare una cosí viva e giusta idea del disordine, delle prepotenze, delle depredazioni, delle pompe, degli avvilimenti in che giacquero i popoli italiani sotto al governo ispano-austriaco.


Note

  1. Non so trattenermi di notare che non ho mutatat e non trovo da mutar una sillaba a questa pagina, scritta or son quattr’anni, nel 1846, e quando eravam lontani tutti di prevedere la rinnovazione di simili faccende.