Della ragione di stato (Settala)/Libro VII/Cap. XIX.

Cap. XIX.

../Sommario dei capitoli I-XVIII IncludiIntestazione 25 maggio 2021 75% Da definire

Libro VII - Sommario dei capitoli I-XVIII

[p. 135 modifica]

Capitolo XIX

Della ragion di stato democratica, e dei modi,
con li quali la republica popolare si possa conservare.

La democrazia, o stato popolare, essendo tra le republiche corrotte, come che per il piú il popolo minuto di numero prevaglie, piú frequente vediamo appresso gli antichi essere stata, che di altra sorte: e perciò i politici piú si sono affaticati in insegnare i precetti per la conservazione di quella. Ma avendo noi mostrato in quella trovarsi due estremi e due mezzani modi; e degli estremi, uno se non perfettamente buono almeno tollerabile, e l’altro ultimo pessimo e insopportabile, anzi indegno di nome di governo, e perciò detto anarchia: penso io in questo capo proporre i mezzi solamente, che servono alla conservazione della prima, come durabile; essendo che l’ultima, non avendo fondamenti, veggo che con qualsivoglia gagliardo e forte puntello mai si potrá sostentare.

Per cominciare dunque dai mezzi e dai rimedi, con li quali si possano superare le difficoltá e vincere le cause di simili mali: ancora che dovrebbe bastare l’assegno delle cause giá annoverate delle rivoluzioni per rimediarvi; perché però nel medicare, se non vi si aggiunge la materia particolare de’ rimedi, la cura resta imperfetta: per adempire perfettamente questa preservazione e curazione di tanti mali, che soprastanno a questa maniera di republica, ho pensato di venire ancora ai rimedi particolari e alle avvertenze, con le quali si possano impedire i tumulti e levare le cause delle mutazioni e rovine di questo stato di republica.

E se è vero, come esser verissimo abbiamo dimostrato, che l’universalissimo fondamento delle discordie e delle cause delle mutazioni e rovine delle republiche, e in particolare della democrazia, è il titolo dell’ugualitá negli stati liberi: pretendendo la plebe infima per il nome di libertá, nella quale si trova, una ugualitá numerale, cioè che tutti in ogni cosa publica siano uguali; e per il contrario quelli, che sono di miglior fortuna, [p. 136 modifica] l’altra geometrica, cioè che, secondo i meriti di ciascuno sia fatta la distribuzione de’ magistrati e de’ carichi: si procurerá sopra il tutto, che non vi sia qualche caporione, seduttor della plebe, acciò stia salda in volere l’ugualitá numerale, acciò non si dia subito nella anarchia e ultima specie di democrazia, pessima e che non può durare. Ma si procurerá, che alcuno del popolo prudente e confidente, e se sará religioso di credito sará meglio, desinganni la fece del popolo, mostrando non convenire alla grandezza di un magistrato, che cada in persona che, priva di facoltá, non possa con dignitá sostenere quel carico; e che non essendo quel carico di utile (perché tale in tal forma di republica si deve ordinare) ma di spesa, meglio per loro sia attendere alle sue faccende: e fra tanto procurargli qualche officietto senza dispendio di tempo, che vicendevolmente compartendosi possa dar contento di onorevolezza senza spesa alla maggior parte.

E perché si è detto, che il guadagno e l’onore, come anco i contrari, la povertá e vergogna, sono cause communi nelle republiche dei tumulti, sedizioni e mutazioni: per fuggire cotali incontri, prima alla plebe e popolo minuto, ma anco a’ mercatanti onorati si dará ogni sorte di aiuto, acciò nella cittá si accrescino i guadagni, introducendo nuove arti, accrescendo gli utili alle ritrovate; onorando i forastieri negozianti, dandogli occasione di venir spesso a’ contratti, con franchigie o non alte gabelle; introducendo mercati e fiere; i mercatanti cittadini si favoriranno, e per esser cittadini e perché, dando da operare agli artefici e plebei, gli rendono con il guadagno d’ogni giorno piu quieti e meno tumultuanti nella republica.

Si avvertirá però, che i mercatanti non tiranneggino gli artigiani; li quali non potendo per altra strada guadagnarsi il vitto per sé e per la famigliuola, spesse volte tirano tanto a sottile le opere, e stentando a trovar da lavorare, si mettono in disperazione, e si dá materia a tumulti bestiali per l’importunitá della plebe, priva di prudenza e prona ai precipizi.

A’ popolari poi di maggior portata, che non essendo in povertá, fanno maggior conto dell’onore, si anderanno [p. 137 modifica] compartendo successivamente gli onori e le dignitá, ma con poco o nissun salario: acciò e l’entrate publiche non aggravino e i plebei restino con poca invidia, essendo tal gente piú dedicata al guadagno che all’onore.

Ed acciò nei magistrati si cammini con questa astinenza del guadagno, conviene nel fine del carico tarsigli un buon sindicato, cosí nei giudizi e azioni, come nei guadagni cosí de’ privati come del publico: ché cosí terranno giusta la stadiera, e cosí si dará sodisfazione al popolo e si leverá l’invidia.

Perciò si dovranno eleggere i magistrati dalle tribú separate, o parrocchie, o parti del popolo separate, e dagli eletti da questi, e non da tutta la moltitudine unita: perciocché, se questo si fará, sempre si eleggeranno i piú bassi, eccedendo il numero de’ tali, o almeno si eleggeranno quelli che ambiscono il favore della moltitudine; li quali per conservarsi cotal favore, essendo eletti, lascieranno tutta la potestá in mano del popolo: onde avverrá che le leggi non si osserveranno, e conseguentemente le republiche diventeranno olocrazie e anarchie; cosí dice Aristotele nel quinto della Politica.

Ma se l’elezione passerá in questa maniera sí, ma che ogni tribú o parte della cittá ne elegga un certo picciol numero, e poi che la sorte decida qual debba esser eletto: sará piú proprio della democrazia, e apporterá piú quiete al popolo, e levará e le mormorazioni e le invidie.

Ma per rendere piú quieto e contento il popolo, molto bene avvisò Aristotele esser molto utile nella democrazia l’introdurre molti magistrati distinti secondo le negoziazioni e secondo le varietá delle cose, acciò piú persone del popolo possano esser contente. Anzi per questa causa medesima giudicò dover esser brevi i magistrati, acciò piú persone possano partecipare di tali onori.

Di piú giudicò bene, che nello stato popolare non vi fosse un magistrato che avesse suprema autoritá, acciò con tale occasione non si mutasse la republica in tirannide. Perciò la republica romana volle che i consoli fossero due, e che i tribuni della plebe fossero molti, e che di raro si facesse il dittatore, ma per breve tempo, e dandogli per compagno il maestro de’ cavalieri. [p. 138 modifica]

Per questo ancora sta bene in questa republica, che chi è stato in magistrato, stia per qualche anno senza poter pretenderne. Cosí si fuggirá l’invidia, si dará campo a molti di godere delle dignitá, né si dará occasione ad alcuno di troppo ingrandirsi, o di ricchezze o di potenza e clientele.

Si provvederá che, venendo piú cittadini pari tra loro di grandezza, che cercano d’acquistarsi il favore della moltitudine, donandogli o lusingandogli, nissun di loro ottenga il suo intento.

Nelle republiche popolari non si devono ammettere gli oratori, o sofisti: essendo la piú dannosa gente in tal governo, che si trovi, vivendo costoro con indurre le sedizioni con l’eloquenza, e persuadendo al popolo quello che da’ piú potenti gli è proposto, e spesso persuadendo il contrario di quel che si dovrebbe, o per proprio interesse o per servire ad altrui. Questo ufficio lo fanno presso le republiche degli eretici i predicanti. E presso di noi a’ predicatori si deve proibire nelle prediche entrare nelle cose particolari delle politie, come faceva il Savonarola a Fiorenza, e altri altrove a’ tempi nostri: perché il popolo idiota e imprudente per simili declamazioni, o non bene intendendo le cose esposte, si muove a sollevazioni e tumulti pericolosi.

E perciò diceva Tucidide, nel libro secondo, nei governi popolari esser dannose le contenzioni degli oratori, perciocché o per ostentazione di eloquenza o per utilitá offuscano il vero alla moltitudine, e la seducono.

Procurerassi nella democrazia che una tribú, o una parte unita del popolo, non sopravanzi in maniera l’altre, che possa tirare a sé il dominio; ma avanti che pigli forze, devonsi o partire, o mandare in esiglio i piú potenti.

È necessario piú in questa republica che in altra la grande autoritá de’ censori; come parmi essere introdotta nella republica di Lucca, che pure è popolare: acciò i discoli pericolosi, o quelli che con il lusso o altro hanno consumato il suo, non tentino qualche novitá; o che non permettino farsi ingiurie notabili tra cittadini, acciò in parti diviso il popolo, non segua i tumulti o le sedizioni. [p. 139 modifica]

Si avvertirá che non vi sia in uno de’ cittadini tanto eccesso di ricchezze o di potenza di clientele, che, con denari e favori e donativi obbligatosi il popolo, potesse mutare la forma della republica in tirannide, accettato dal popolo come benefattore e padre del popolo; come si vide nella republica romana nella persona di Melio e de’ Gracchi.

Di grande importanza sará in questa republica procurare che i principali magistrati cadano, non nei piú ricchi, perché apporterebbe i pericoli giá narrati, ma né anco nell’ultima feccia del popolo: ma però in persone di mediocre censo, e che dalla sordida avarizia non siano macchiati; acciò e le dignitá tenghino il suo grado, e le persone onorate e nobili, vedendo le dignitá cadere in persone cosí di bassa condizione, e che intorbidiscono tal magistrato, impazienti di tal miseria non tentino novitá, dalle quali si muti lo stato della republica.

Però sará bene stabilire un censo mediocre necessario a chi possa ottenere i primi magistrati e le principali dignitá; lasciando certi uffici minori da distribuirsi al resto del popolo, il quale pagato del dovere e consolatosi per gli altri magistrati minori, si quieterá, né tumultuerá.

Non deve dispiacere il dare la cittadinanza a qualcuno, che o per virtú o per meriti o per arte introdotta di utilitá o per simil cosa merita: né in questo si può grandemente errare. Non sará giammai però lodato l’ammettere molti, o di una nazione, acciò non seguano con i veri cittadini discordie e sedizioni.

Una republica ben governata, come non deve accrescere la potenza e l’autoritá di quei cittadini, i cui pareri sono le piú volte preferiti a quei degli altri, cosí non deve levargliele. Né si deve dar biasimo a coloro, i pareri de’ quali vengono per lo piú rifiutati. Cosí avverrá, che né coloro, che sono soliti ad ottenere, parleranno differentemente da quello che sentono per speranza di premio, né quelli, che sono usati perdere, affetteranno la grazia della moltitudine col parlare a grado. (Sentenza di Tucidide nel libro terzo, sotto persona di Diodoto ragionando agli ateniesi). [p. 140 modifica]

Nel governo popolare ancora che convenga a’ savi cittadini ne’ voti dir la veritá e quello che è il servizio publico, è però ancor necessario tal volta far qualche cosa al voler d’altri e seguitare il volere della moltitudine, per non mostrar superioritá co ’l stare ostinato nel suo parere. (Fu sentenza di Alcibiade, appresso Tucidide nel sesto).

Il governo popolare si stabilisce, e conferma nella pace; e per il contrario si mette in rovina per la guerra. (Sentenza d’Isocrate nell’orazione Della pace).

Per conservarsi e passar bene nei consegli, doveranno ammettere, ove si tratta di affari publici, tutti coloro, a’ quali non si anteporrebbero altri per consultare negozi privati.

Ben disse Aristotele nel quinto della Politica, che non si conserva il governo popolare col eccedere nelle popolaritá, né lo stato de’ pochi col far tutte le cose a grado de’ pochi; anzi perdono ambedue la forma, come i membri del corpo quando passano la debita misura. Ma per conservare l’un e l’altro, si vuol far di modo, che nella republica popolare possano stare i ricchi, e nello stato de’ pochi la moltitudine. Però quelli che sono capi del popolo nel governo popolare, devono mostrare di favorire i ricchi; e cosí al contrario nello stato de’ pochi mostrar di favorire e tener conto del popolo.

E perché in tutte le republiche è necessario trattarsi e maneggiarsi molte cose appartenenti al servizio publico, che hanno bisogno di secretezza; il che mai si potrá ottenere, se a tutto il popolo saranno communi: benissimo avvisa il Guicciardino, nel libro secondo, nelle republiche popolari esser necessario ordinare un conseglio scelto de’ piú savi e piú esperimentati, deputato a ciò dal consiglio universale; dove le cose piú importanti dello stato, e che hanno bisogno di secretezza, si hanno da maneggiare e consultare: essendo che la moltitudine non è capace di tal materia; e ancora perché queste materie spesso hanno bisogno di secretezza e prestezza: le quali cose non si possono sperare, trattandosi con la plebe.

Per conservare la libertá popolare, basta che la distribuzione de’ magistrati e il formare nuove leggi dipenda [p. 141 modifica] dall’universal consenso della moltitudine; se bene giá si è dimostrato esser molto piú sicuro che la distribuzione de’ magistrati si facci sí da tutto il popolo, ma eleggendo dalle tribú di quelli che abbino da loro tal autoritá: ché cosí si fuggiranno molti incontri, e però potrá veramente dirsi tale elezione venire da tutto il popolo.