Della ragione di stato (Settala)/Libro III/Cap. IV.
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Capitolo IV
Della ragion di stato aristocratica,
con la quale si procura la conservazione della forma di tale republica.
Abbiamo fin qui proposte le cause delle mutazioni e distruzioni delle republiche degli ottimati, e i rimedi o per rimediargli o impedirle; ora ci restano da proporre le cause della conservazione di tal forma di republica e il modo di preservarla: nel che saremo alquanto piú brevi, perché, conosciute le cause della rovina loro, facilmente si conoscono le cause della salute.
Tra le piú principali cause della conservazione della republica degli ottimati, commune però a tutte le altre republiche cosí buone come ree, è il non permettere che le leggi in qualsivoglia minima cosa si mutino, né gli antichi istituti per un poco siano alterati: perché, per ben che una cosí minima cosa appaia di niun pericolo, nientedimeno che per le sussequenze, e potendovi d’indi nascere piú mutazioni, né per la picciolezza del principio conoscendosi i pericoli se non da’ periti politici, si camina spesse volte ad occhi chiusi alla rovina; non altrimenti di quello, che si fa nelle famiglie potenti e ricche, nelle quali per le soverchie ricchezze non avendosi riguardo a certe spese minute, che per essere spesse, ma quasi insensibili, non facendovisi sopra riflessione, in processo di tempo apportano rovina alle case, quando manco il padre di famiglia imprudente vi pensava. Si procurerá ancora di sapere tutte le astuzie, inganni e furberie, che o dalla plebe o da alcuno della republica potessero esser ritrovate per mutar lo stato presente della republica: acciò con altrettanta accortezza vi si possa rimediare, e impedirle.
Ancor sará molto ben d’avertire che, tutto che non tanto le oligarchie quanto alcune aristocrazie ancora di loro natura non siano molto sicure dalle rovine, nientedimeno si possono mantenere in piedi, quando sia che chi le governano s’appiglino a’ que’ buoni modi di procedere, che si possano tenere, cosí fra di loro come ancor con gli altri che si trovano privi della partecipazione del maneggio della republica: con questi usando una tal destrezza e riguardo, di non ingiuriare alcun di loro, e massime uomini che stimano l’onore; e con tirare appresso qualche capo di essi alla podestá del governo; e con dar insieme occasione alla plebe d’arricchirsi con diversi guadagni; di poi con li compagni e colleghi de’ magistrati procedendo in maniera popolare: poiché quella ugualitá, la quale il popolo pretende che sia commune alla moltitudine, è non solamente giusta, ma insieme anco molto utile che si servi fra le persone che sono di ugual e simil condizione e stato. Perciò, occorrendo che molti si trovino ammessi alla participazione dell’amministrazione della republica, siccome quivi il numero di questi tali è a guisa di un popolo, in cui hanno luogo, si come anco nella republica popolare, i capi e gli aderenti, tornerá molto a proposito valersi di molti istituti popolari; e fra gli altri di questo, di ridurre gli offici de’ magistrati a breve tempo, come a dire a sei mesi, a fin che tutti quelli che sono simili insieme, e pari di condizione, ne vengano a godere la lor parte. Cosa molto utile per levar l’occasioni ai machinamenti, che si possono fare contro la republica, non essendo giamai cosí facile machinare il male per mezzo delle dignitá, massimamente per mezzo delle grandi, quando siano amministrate per breve, come per longo tratto di tempo: essendo la scala con la quale alcuni saliscono ad impadronirsi tirannicamente dell’imperio della propria citta, i’aver in essa grande autoritá; la quale cosa i potenti nell’oligarchia come i capi del popolo nella democrazia s’acquistano col mantenersi longamente nelle dignitá de’ principali magistrati. Questo fu piú d’una volta ricordato da Aristotele nel secondo e nel quinto della Politica, apportandone due ragioni: l’una perché impedendosi agli uomini o ambiziosi o di eccellente ingegno la strada agli onori e alla dignitá, dá occasioni a sedizioni, tumulti, e mutazioni di forma di republica; l’altra perché rendendosi troppo insolenti quelli che, per longhezza di tempo restati potenti, hanno pigliato troppo amore al dominare, perciò si preparano la strada alla tirannide: esempio ci sia Giulio Cesare, il qual per essergli stato prolongato l’imperio nella Francia, non sapendo piú vivere vita privata, distrusse la republica romana, facendosi in quella monarca.
Il quarto avertimento, col quale ci insegnò Aristotele il modo di conservare la republica, giudico essere (che pure parerá paradosso) il discoprire i pericoli, che soprastanno alla republica. Poiché in questa guisa divenuti gli uomini paurosi di cader dallo stato nel quale si trovano, si stringono insieme e concordi pigliano ad un certo modo la republica fra le braccia, difendendola con ogni studio, perché loro non sia levata o malmenata. Onde tutti quelli, a’ quali preme ed è molto a cuore la salute della republica, non faranno che bene a metter alle volte ombra e seminar voci e sospetti di pericoli soprastanti o vicini, li quali sarebbono atti a travagliare la cittá o republica, a fine che in questa maniera gli animi de’ cittadini fatti tanto piú svegliati, non tralascino mai tempo, a guisa delle notturne sentinelle, per custodirla.
Non piacque ad Aristotele il paradosso di Solone (difeso però e da Aulo Gellio nel libro secondo al capo duodecimo e del Bodino nel libro quarto al capo settimo), che nelle sedizioni de’ cittadini tutti s’appigliano o ad una o all’altra parte, e che nissuno fosse neutrale, che fu però da Plutarco nei Precetti civili ancora ributtato. Ma per il contrario Aristotele lasciò scritto essere precetto e avvertimento di grandissima importanza il provedere de’ buoni ordini e leggi per impedire le contese e sedizioni, che nascono massimamente fra gli uomini primari dello stato: dovendo e insieme chi ha la briglia in mano del governo provedere e prevenire con rimedi opportuni, che non s’attacchi il fuoco di queste discordie negli animi degli altri, che vi potrebbero facilmente aver inclinazione.
Non è però fuori di proposito nelle cittá a tal republica soggette, se nascono qualche romori tra le principali famiglie, pur che non vi concorrino tutti gli altri cittadini, il lasciar durare fra loro questi sospetti; a benché si doverá procurare di conciliar le inimicizie, acciò non segua alcuna rivolta che rovini la cittá: l’unirli però con parentela o altro modo di reciproco amore, non è cosí di sicurezza per la republica dominante.
Aggiunge Aristotele nel detto capo ottavo del quinto un precetto, il quale, benché commune allo stato popolare, a quello de’ pochi potenti e al monarca, è però di grandissima consequenza nella republica degli ottimati e de’ pochi potenti, che è di fuggire di non ingrandire troppo alcuno, ma cercar piú tosto di contentarlo e rimunerarlo con mediocri e tenui onori, che con alti gradi, che siano di picciol durata. Perché corre gran pericolo l’uomo, che si trova nei supremi gradi di dignitá, di non pigliar mala inclinazione: non essendo virtú se non di pochissimi e rarissimi uomini l’usar bene della prospera fortuna. Il che quanto sia difficile, quindi si può conoscere, che appresso i morali ancor è in dubbio, se sia piú difficile il portarsi prudentemente e sopportar la fortuna contraria, o la prospera: essendo che la contraria rende gli uomini prudenti e sagaci, e gli fa vigilanti; e la prospera li fa insolenti, negligenti e dispregiatori, come ci insegnò Diodoro Siculo al libro decimonono. E perciò di Timoleone diceva Cornelio Nepote: et id, inquit, quod difficilius videbatur, multo sapientius tulit secundam quam adversam fortunam. Ed all’incontro in Conone dice: Accidit huic, quod caeteris mortalibus, ut inconsideratior in secunda, quam in adversa esset fortuna. Onde Aristotele, e nel libro quarto della Politica e nel secondo della Retorica, diceva che per la prospera fortuna gli uomini si fanno piú insolenti, e nella contraria piú modesti e piú quieti.
Ben vi aggiunge però nel medesimo luogo Aristotele un bellissimo ammaestramento, che quando pure si abbi condotto alcuno ad una tanta altezza, conviene poi tanto maggiormente fuggir l’altro scoglio opposto, di non volerlo poscia in un tratto digradare da un tanto onore, che se gli è dato: ma a poco a poco cercare di levargli di mano l’autoritá e gli onori.
E perché dalla forma della vita seguitata dai privati ponno nascere ancora delle novitá nelle republiche, scrive Aristotele ivi un avvertimento di ragion di stato commune a tutte le specie di republiche, che però in quella degli ottimati, come piú principale, è piú d’importanza: che si debba ordinare un magistrato, il quale abbia da osservare i modi di vivere tenuti da’ cittadini, per potergli notare e correggere, quando non siino conformi alla qualitá della republica, o aristocratica o popolare o politica o d’altra sorte che ella si sia, nella quale essi si trovano, partendosi dagli ordini convenienti o nel vestire o nel banchettare o nell’armeggiare o in far nozze o in altro affare: al che spesso ne seguono innovazioni importantissime a tutto lo stato della republica. Siccome anco per una simil cagione hannosi da osservare i modi dell’oziare e darsi bel tempo, che usi questa o quella sorte d’uomini, cioè i ricchi, i poveri e i mezzani; poiché da simili ridotti e dalla licenziosa vita d’alcuni nascono motivi d’importanza, e spesso machinamenti contro la republica.
Nella republica romana i censori avevano questo incarico, e presso gli ateniesi nell’Areopago ciò si trattava. Era appresso de’ greci un determinato censore circa il vivere e vestire delle donne, che si chiamava γυναικονόμος. Cosí dopo le guerre civili, in ogni cosa essendo variata la republica romana, prima C. Cesare e poi Augusto fecero prefetti sopra tutte queste cose e in particolare sopra i costumi, come scrive Dione istorico. E quindi nelle ben ordinate republiche con ogni diligenza si procura, che non s’innovi cosa alcuna nei costumi, nel vivere e nel vestire; in maniera che né anco le cose che patiscono qualche eccezione, e quasi sono ridicole, permettono che si mutino, per picciole che siano. Come vediamo nella prudentissima republica di Venezia, che oltre le cose di maggior importanza, che restano nel loro stato antico, nelle leggieri ancora non ammettono alterazione alcuna, come nei beretini. che per ben che appaiano ridicoli per difendere il capo da la pioggia, da’ venti, e dal sole, non permettono però che si mutino, per non fare strada ad alcuna mutazione nei suoi veri cittadini. Del che Plutarco riprende Lisandro, che con queste mutazioni corrompesse la sua patria Lacedemone: come anco e Sallustio e Livio molto aggravano Silla e Lucullo, che guastassero la republica romana con avere introdotto il lusso asiatico.
E perché questa specie di republica è composta di un determinato numero di famiglie, o per vera virtú, o per nobiltá, o per determinato censo: per ragion di stato devono i padri procurare che pochi dei suoi figliuoli piglino moglie; ma impiegarne parte devono per servire Iddio in religione, o togata o cavaleresca, parte in guerra, parte in servir prencipi: acciò, moltiplicandosi tanto quelli che possono partecipare della republica, non si muti in forma popolare; o venendosi alle discussioni de’ beni, la povertá non facci avvilire la nobiltá, impiegandosi per ben vivere in sordidi esercizi, o, non potendola moderatamente sopportare, essendo commune a molti, sia causa di rivoluzione tale che muti la forma della republica.
Spesse volte inoltre si deve riformare la republica e ridurla ai suoi principi, della qual cosa i politici giudicano non esservene altra per conservar la primiera forma di tale republica piú eccellente: imperciocché questo è proprio di qualsivoglia republica, che o con la continua pratica coi forastieri, o per la proprietá del tempo, o per la negligenza di coloro che governano la republica, pian piano si infettano de’ costumi forastieri; al che se presto non vien provisto, facil cosa è mutar forma: e perciò disse il poeta: Si paulum summo discessit, verget ad imum.