Della moneta/Libro II/Capo IV

Capo IV - Della giusta stima de'metalli preziosi; e quanto nuoccia più la soverchia che la poca. Vera ricchezza è l'uomo

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Capo IV - Della giusta stima de'metalli preziosi; e quanto nuoccia più la soverchia che la poca. Vera ricchezza è l'uomo
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CAPO QUARTO

della giusta stima de’ metalli preziosi e della
moneta e quanto noccia più la soverchia
che la poca — vera ricchezza è l’uomo

È maggiore il numero di chi stima soverchio che di chi stimi men del giusto i metalli preziosi — False lodi dell’oro e dell’argento — Definizione della ricchezza — La ricchezza è relativa sempre tra le persone e tra le cose — Falsa conclusione che i metalli sieno inutili affatto — False speranze sull’aver molto argento ed oro riposto — In tutta la serie della storia sempre le ricchezze hanno fatto perdere chi combatteva contro piú povera nazione — Lo stesso è avvenuto ne’ secoli piú vicini a noi — Ragioni di questo — La moneta non è la vera ricchezza d’un paese — La vera ricchezza è l’uomo — Eccellenza ed utilitá dell’uomo all’uomo — Elogio del governo cinese — Come ed in quanti modi si possa accrescere la popolazione — Eccellenza dell’agricoltura sopra il commercio.

Siccome è il volgare proverbio che il giusto è sempre in mezzo al troppo e al poco, cosí la moneta ha, ed in ogni tempo ha avuti, e ingiusti disprezzatori e vili idolatri. Ma non sono queste due classi d’uomini egualmente numerose: perciocché l’una di pochi sapienti e di altri non molti, che sotto un cosí augusto vestimento stannosi mascherati, è composta; l’altra comprende quasi tutto il restante della specie umana, e spesso anche que’ che se ne mostrano palesemente disprezzatori. Similmente non sono del pari da temere le conseguenze di queste non giuste opinioni: perché la prima, non potendosi comunicare alla moltitudine, non produce nocumento; l’altra per contrario è di gravi mali cagione e d’errori, che seco portano la ruina degli Stati; col quale avvenimento solo, ch’è il peggio, [p. 124 modifica] si lasciano percepire. Perciò io mi propongo d’entrare a disputare dell’utilitá e necessitá della moneta e prefiggere i giusti limiti alla stima di lei; acciocché gli uomini, ritraendosi da quell’errore ordinario, per cui scambiano le immagini colle cose, gl’istromenti con l’opra, conoscano che i metalli preziosi sono mercanzia di lusso e non di necessitá; la moneta non è ricchezza, ma immagine sua ed istrumento di raggirarla: dal quale rigiro sebbene accada alcuna volta che la vera ricchezza s’accresca, infinite volte piú pare che cosí avvenga e non è vero. Non diversamente da quello di chi, movendo velocemente un carbone acceso in giro, fará credere all’occhio che una ruota intera di fuoco egli s’abbia nelle mani, mentre la veloce mutazione pare agli uomini duplicata presenza.

Che la moltitudine chiami il denaro «nerbo della guerra», «fondamento d’ogni potenza», «secondo sangue dell’uomo» e «principal sostegno della vita e della felicitá», si potrebbe perdonare all’ignoranza sua ed alla connessione delle idee fra l’immagine e la cosa. Ma che si lasci cadere in questo errore chi governa, non è in alcun modo da tollerare, per lo danno che ne può provenire. Le ricchezze di Sardanapalo, di Creso, di Dario e di Perseo furono per cagione di questo inganno accumulate; e, perché questi non si ricordarono che la guerra si fa cogli uomini e col ferro e non con l’oro, e vi si riposarono sopra, furono piú avidamente spogliati per quella cosa istessa, ch’essi aveano per difesa accumulata.

Ora, per dimostrare la grandezza di questo volgare errore, basta definire che sia la ricchezza, e si vedrá se il possessore delle monete si possa cosí chiamare. Ricchezza è il possesso d’alcuna cosa, che sia piú desiderata da altri che dal possessore. Dico cosi, perché molte cose sarebbero ad alcuno utili assai, ma, avendo quegli la sventura di non conoscerle, non se ne può dir povero, né chi le possiede, rispetto a lui, è ricco; e cosí per contrario molte sono o inutili o dannose, ma, essendo per errore molto richieste, rendono ricco chi le ha.

Da questa definizione si comprende che la ricchezza è una ragione tra due persone, e, riguardo ad ogni uomo, uno è [p. 125 modifica] disegualmente ricco. Inoltre non la sola quantitá delle cose desiderate, ma la varia qualitá loro con ragione composta è misura delle ricchezze, e chi ha le cose piú utili, è piú ricco di chi possiede le meno utili. Or nella serie delle cose utili le prime sono gli elementi; indi è l’uomo, che di tutte le cose è la piú utile all’altro uomo; poi sono i generi atti al vitto, indi al vestito, appresso all’abitazione, e in ultimo alle comoditá meno grandi ed all’appagamento de’ piaceri secondari dell’uomo. In questa classe sono i metalli, non discosti dalle gemme: sono dunque utili anche essi, ma meno dell’uomo. Dunque, se Ciro, se Roma, se Alessandro aveano piú uomini, o, per meglio dire, migliori che Creso e Perseo e Dario, erano piú ricchi assai; e non fu fortuna il vincere, o cosa strana se il piú forte restò superiore. È errore chiamar piú forte chi ha piú denaro. Non ebbero adunque costante fortuna i romani, ma costante superioritá di potere. «Caso» e «fortuna» sono voci nate dall’ignoranza nostra, e nella natura non sono. Diciamo noi meschini «caso» quell’ordine di leggi, che non sappiamo sviluppare, ed ella è voce relativa al diverso intendimento nostro; onde il savio è sempre dallo sciocco chiamato «fortunato». Né credo io perciò che vi sia voce di questa piú vergognosa per noi e piú ingiuriosa alla provvidenza, che ci governa.

Non è vero adunque che l’oro e l’argento sieno inutili affatto, ma non sono nemmeno degni d’esser dichiarati sovrani del tutto ed arbitri della felicitá; come l’olio e il vino, sebbene non inutili, non sono mai cosí chiamati. I metalli sono merci di lusso: il lusso nasce in quello stato prospero, in cui i primi bisogni sono agevolmente soddisfatti; e, quando le calamitá tornano, il lusso muore. Or, se la ricchezza non è per altro prezzabile se non come ricovero delle sventure, come mai si potrá dir ricchezza quella che lo è solo nelle felicitá, inutilissima poi nella miseria? Qual fondamento si potrá fare in lei?

E pure molte nazioni ve lo fanno. I portoghesi godono vedere le sagrestie delle loro chiese fatte quasi magazzini d’argento, e in questo argento riguardano un rimedio ad ogni bisogno. Se lo avranno (il che prego il cielo che mai non sia), [p. 126 modifica] s’accorgeranno che vaglia quel metallo. Credono poterlo convertire in moneta. Non so se avran tempo da farlo; ma, quando l’avessero, non so se potranno, cosí come hanno convertiti i vasellami in moneta, convertir la moneta in uomini e in pane; e, se non lo potranno, la calamitá non avrá il rimedio suo. I privati uomini possono ben fondarsi sulla moneta, perché le loro disgrazie non sono congiunte con quelle di tutti gli altri per lo piú; ma gli Stati no. I mali piccoli gli sana il denaro: i grandi d’uno Stato gli aumenta, perché lo fa predare piú presto e da’ nemici e dagli ausiliari suoi. I veneziani nella battaglia di Ghiera d’Adda, avendo ancora l’erario loro pieno di tesoro, perderono tutto lo Stato, senza poter esser difesi da quello; e quel danno, che un esercito ben pagato avea prodotto, fu riparato dal valore di que’ gentiluomini, che difesero Padova e non costarono stipendio alla repubblica.

Io dubiterei d’annoiare in cosa cosí evidente i miei lettori, s’io non vedessi una innumerabile quantitá d’errori commessi per la falsa persuasione del contrario, e non sentissi infinita gente chiamare il denaro «nerbo della guerra». Certamente è cosa meravigliosa ed incredibile che, non leggendosi nella storia di duemila anni esempio alcuno di nazione denarosa ma non molto agguerrita, che ne abbia distrutta una povera ma numerosa, molti esempi, per contrario, che i poveri abbiano depredati i ricchi, non si sia svélta ancora questa sentenza dagli animi umani. Le ricchezze di Babilonia furono preda della povera Media e della selvaggia Persia. Queste, nell’arricchirsi di tante spoglie, perdettero ogni forza e virtú; onde i traci e i greci, poverissima gente, fiaccarono le arme di Dario e di Serse. Né avrebbero i loro successori avuto mai vantaggio sulla Grecia, se non avessero riempiute le cittá dell’Asia minore d’oro e di tiranni, corrotta Sparta e quasi comprata Atene. Allora fu che Tebe e la lega achea cominciarono a valere, e valsono piú i soldati e la virtú loro che il danaio e le arti della pace d’Atene. Né molto tempo dopo, la povera Macedonia, mossasi a disfare l’antico imperio persiano e conducendo seco ferro da opporre all’oro, dimostrò in quale de’ due metalli era [p. 127 modifica] forza maggiore; e che il ferro trovava l’oro fino nell’India, l’oro non lo spuntava, ma anzi piú l’aguzzava. Ma, subito morto Alessandro, le ricchezze fecero quell’effetto ch’esse veramente producono, quanto è a dire tolsero il nerbo all’armi della guerra. Cosí potette Roma, che, vivendo sempre povera, avea sottomessa e la ricca Sicilia e l’opulentissima Cartagine, ingoiarsi questo imperio ancora, che da’ successori d’Alessandro era stato diviso. Tranguggiatolo appena, s’indebolì, e le ricchezze furono il termine della grandezza sua; e quelle settentrionali regioni, che per l’inumanitá delle nazioni non avevano potuto ricevere i tesori asiatici, restarono a nutrire que’ semi di virtú militare, che doveano sfasciare quell’imperio sterminato.

Né i secoli a noi piú vicini sono stati meno fecondi d’esempli consimili. I tartari han domata la Cina, l’India, la Persia e la potenza saracena. Gli svizzeri sono i piú poveri popoli, ma i piú valorosi. Gli spagnuoli ebbero meritamente nome grandissimo di valore, sintanto che, scoperta l’America, col nuovo creduto «nerbo della guerra», non sapeano intendere come gli eserciti loro fussero deboli da per tutto, e d’ogni cosa utile, fuori che di denaro, sforniti: non avvertendo che, quando è vicino il timore d’una disfatta, il danaio non trova uomini da soldare né pane da vivere; come per contrario coloro, che seppero adoperare il ferro, non patirono mai carestia d’oro. Né giova piú enumerare esempli, mentre e le Province unite contro la Spagna e la Svezia sotto i due Gustavi, e gli svizzeri contro la lega italiana e contro al duca Carlo di Borgogna detto l’Ardito, e gli ungheri, non è gran tempo, e gl’irlandesi, e a nostri dì i còrsi hanno palesato quanto valore conservassero nella povertá.

Né la ragione è contraria all’esperienza. L’uomo ricco s’espone a’ perigli sempre meno del povero, e quanto gli è piú dolce, tanto gli è piú cara la vita; né d’un popolo di mercanti s’avranno mai buoni soldati. Perciò a Cartagine, a Venezia, all’Olanda è convenuto avere armi straniere e mercenarie; ed hanno creduto che il dare una piccola parte delle loro ricchezze bastava a trovar gente, che si facesse uccidere per salvar [p. 128 modifica] loro il restante. In sul fatto hanno dolorosamente conosciuto che gli amici non erano men de’ nemici famelici ed invidiosi de’ loro tesori. Questa è una ragione. L’altra, non meno potente. è che piú sono le guerre perdute per aver soverchio denaro e amarlo soverchiamente, che per averne poco. Le ricchezze, menando seco l’avarizia, impoveriscono l’animo di chi le ha, e la guerra non vuole parsimonia eccessiva. Atene perdette ogni guerra con Filippo di Macedonia, perché le arti della pace aveano in quella republica introdotto un gusto alla quiete, precursore della servitú, e un inopportuno increscimento a spendere ed a combattere. L’animo misero di Perseo lo fece sottomettere da’ romani. E, ne’ tempi de’ nostri padri, l’Olanda, regolata da’ due fratelli Di Witt, corse gli estremi pericoli, perché era e per terra e per mare, usando risparmio, d’ogni cosa, che a guerra si confacesse, mal provveduta. E, se ad alcuno moverá difficoltá come sieno state queste republiche tutte potenti e prodi in mare, e’ dovrá riflettere come le armate di mare piú hanno a combattere cogli elementi che co’ nemici; e questa perizia del navigare, che nella pace è di mestiere s’acquisti, solo l’aviditá delle ricchezze ed il commercio la può dare. Avviene poi che quell’ardire, che dall’avarizia è generato, si converte in valore, quando è d’uopo guerreggiare.

Da quanto s’è finora detto si conchiude che la moneta, utilissima come il sangue nel corpo dello Stato, vi si ha da mantenere fra certi limiti, che sieno proporzionati alle vene per cui corre; oltre ai quali accrescendosi o diminuendosi, diviene mortifera al corpo ch’ella reggeva. Non è dunque degna d’essere accumulata indefinitamente da’ principi e tesoreggiata. Quello, che dee essere il solo oggetto della loro virtuosa aviditá, perché è vera ricchezza, è l’uomo, creatura assai piú degna d’essere amata e tenuta cara da’ suoi simili di quel ch’ella non è. L’uomo solo, dovunque abbondi, fa prosperare uno Stato.

Io vorrei poter avere eloquenza atta a comunicare a tutti quella passione ch’io ho per l’umanitá, e sarebbe degno del nostro secolo che gli uomini cominciassero ad amarsi tra loro. Niente mi pare piú mostruoso che vedere vilipesa e fatta schiava [p. 129 modifica] e come bestie trattata una parte di creature simili a noi: il qual costume, nato in secoli barbari, nutrito da sozza superbia nostra e da vana stima di certe estrinseche qualitá di color di pelle, fattezze, vestimenti o d’altro, dura ancora a’ nostri dì. Ma a chiunque è degno d’esser nato uomo dee esser noto che il massimo de’ doni fattici in questa vita dalla divinitá è stata la compagnia de’ nostri simili, che dicesi «societá»; che Adamo fu il piú grande imperatore, avendo pacificamente posseduta la terra intera, ma il piú miserabile, avendola colle sue mani zappata; che tanto vale un regno quanti uomini ha, e niente piú; tanto è piú forte quanto piú uomini in minor terreno; che non v’è piú stolta politica quanto spopolare un Regno per conquistarne un altro, come sarebbe stolto spiantare una selva per trapiantarne le piante in un suolo, ove è certo che non alligneranno; che non v’è peggior rimedio a conservare uno Stato che struggerne gli abitatori, siccome sarebbe stolta cosa se un principe, volendo risparmiare il nutrire i cavalli della sua cavalleria, li facesse uccidere e scorticare, e, riempiendo le pelli di paglia, di questi cavalli non dispendiosi tenesse cura, giacché non dissimile a pelli vuote sono le mura delle cittá prive d’abitatori; che finalmente l’esperienza fa anche a’ di nostri vedere essere la divinitá tanto gelosa delle ingiurie, che gli uomini fanno agli uomini, che molti paesi tengono ancora le piaghe aperte, per aver giá, molti secoli sono, spopolate le loro terre senza vera necessitá.

Adunque non v’è cosa che vaglia piú dell’uomo, e sarebbe desiderabile che si conoscesse quanto lucrosa mercanzia egli è, e come mercanzia si cominciasse a trattare; ché forse l’avarizia opererebbe quel che non può la virtú. I cinesi, de’ quali la scienza del governo è, con varietá d’opinioni, da molti stimata assai, da altri vilipesa, hanno una grande e gloriosa pruova in favor loro, nel mostrare quanto sia popolato il lor paese e quanto gli ordini del governo conferiscano alla popolazione.

Ma, poiché questa parte della scienza di governare è di grandissimo rilievo, né in tutto aliena dalla presente materia, [p. 130 modifica] sebbene ella siasi da me in altra opera dichiarata tutta, pure e’ mi par bene anche qui ragionarne. Dico adunque che i mezzi da accrescere la popolazione sono sei.

I. La esatta giustizia e la libertá, che è quanto dire le buone leggi; intendendo io qui per «libertá», non l’aver parte al governo, ma l’esercizio pacifico di quanto dalla retta ragione e dalla vera religione, che è lo stesso, non è vietato, né nuoce al bene dell’intero Stato. Questa giustizia e libertá compensa da per tutto ogni bellezza di clima e di paese; e si vede che le rupi degli svizzeri e le paludose Polesine di Rovigo con queste arti hanno spopolata la fertile Lombardia.

II. La virtú militare, che difenda dalla servitú, e le savie provvidenze contro alla pestilenza; sebbene la prima di queste due nasca sempre dalle buone leggi: né c’è valore ove non è libertá.

III. La giusta distribuzione de’ tributi, la quale, non nuocendo alle arti ed al commercio, non riduca gli uomini alla mendicitá; perché questa, scemando i matrimoni e la prole, nuoce talora piú della peste istessa.

IV. L’egualitá delle ricchezze; perocché il lusso, compagno delle ineguali distribuzioni testamentarie, toglie la diramazione alle famiglie, ed è da per tutto col forzoso celibato accoppiato.

V. Il principe proprio, senza il quale tutte le cose di sopra enumerate non si possono stabilmente avere.

VI. L’agricoltura favorita piú d’ogni cosa e piú del commercio. L’uomo è animale che si nutre di terra. Il commercio non produce nuovi frutti della terra, ma solo o gli raccoglie o gli trasporta o gli scomparte ed espone in vendita; onde, se questi mancano, ogni commercio s’estingue. L’agricoltura è dunque la madre di esso, e senza esso si viverebbe, quantunque a stento; senza l’agricoltura, affatto non si può vivere. Onde è ch’egli è un errore quanto generale tanto calamitoso l’essere l’agricoltura disprezzata da tanti e tanti, che questa voce «commercio, commercio» replicano meccanicamente sempre e, senza intenderla, esaltano solo perché ella è venuta in moda, e chi la proferisce, comunque egli lo faccia, purché sia con aria grande e carica di mistero, si [p. 131 modifica] manifesta per uomo intelligente di politica e di Stato. Classe d’uomini quanto perniciosa allo Stato, tanto a’ di nostri nelle civili e familiari conversazioni per nostro danno multiplicata.

Basti questo qui. Il restante è da me disputato in altra opera, che comprende l’arte intera dei governo, la quale, quando la malignitá della sorte, che mi opprime e quasi mi schiaccia, non dico si cangiasse, ma intermettesse alquanto, non dubiterei di pubblicare.