Della fama d'Orazio fino a' dì nostri, in Italia

Mario Rapisardi

1885 saggi letteratura Della fama d'Orazio fino a' dì nostri, in Italia Intestazione 18 settembre 2008 75% saggi

I


La fama d'Orazio, stata grande nel secolo di Augusto, diminuita di molto fra il secondo e il terzo secolo dopo, se dobbiamo, a una testimonianza di Frontone, accordare quel poco che Giacomo Leopardi le attribuisce; cresciuta nel periodo del rinascimento, durata in pace nei secoli di poi, notabilmente si ravviva e s'illumina nel nostro, che pur tante cose recenti dimentica, tante glorie antiche trascura e tanta fretta ha nel fare e disfare, che nessun altro.

Le edizioni di Orazio si moltiplicano, le critiche, le illustrazioni e gli acciabattamenti dei testi si succedono, se ne studiano singolarmente le poesie, se ne esaminano i precetti: la vita, i costumi, gli studi, la filosofia, lo stile, la lingua, la metrica del poeta si fanno argomento di lavori speciali, e pur predicando l'impossibilità di tradurlo, se ne tenta ogni poco la traduzione.

Che questo avvenga in Germania o in Inghilterra non fa specie; giacchè nella prima lo studio dell'antichità classica è una professione e un mestiere; e nella seconda, positiva in tutto, più che la forma si studia nei classici la sostanza, e i pensieri e i sentimenti dei buoni scrittori antichi si fanno entrare nella vita moderna per via di una educazione intesa a svolgere e secondare nell'individuo le attitudini e le qualità più utili alla conservazione e al perfezionamento della specie.

Ma che tale fenomeno si veda anche in Italia, pare strano, quando si pensa che gli studi classici sono fra noi generalmente trascurati, non ostante le giunte e i commissari regi e il fardello di grammatiche filologiche, di cui la provvida Germania ci arricchisce, e di che si carica discretamente il basto dei futuri speziali e tabellioni del regno; che i pochissimi che vi si addicono con amore, non ne ottengono considerazione o compenso alcuno, ne di denari, che gli editori, essendo scarsissima la lettura, non possono dare, ne di rinomanza, di che gl'Italiani sono larghissimi ai morti, avarissimi e invidiosissimi ai vivi, se non forse a coloro che li piaggiano e li ciurmano, e a cui la concedono solo per qualche tempo a prezzo di accatti reciproci e di viltà.

E questa chi l'ha se la tenga.

Eppure in Italia si pensa ad Orazio, specialmente da una diecina d'anni in qua; e per non parlare dei lavoretti più o meno critici, fatti a consumo delle scuole regnicole visto e considerato che la traduzione del Marchese di Castroreale, se ha qualche valore come poesia italiana, non ci rende che assai mediocremente la fisonomia del Venosino, più di un animoso si è messo alla prova dando poco orecchio alla spicciativa sentenza di Don Alessandro; e qualcuno ci ha con brevi esperimenti fatta concepire come ragionevole la speranza che possa finalmente aversi un Orazio italiano.

Ma di questi tentativi e del merito di ciascuno e delle questioni attinenti ai criteri del tradurre in genere e del tradurre Orazio in ispecie non è questo il luogo e il proposito di ragionare. Voglio ora cercare le cagioni possibili di questo ravvivamento del nome di Flacco in Italia, a' giorni nostri.

II


La gloria di un poeta dovrebbe unicamente dipendere dal pregio dell'arte; ma nel fatto non è sempre così. I contemporanei guardano più alla sostanza che alla forma di un lavoro; apprezzano più i sentimenti che lo stile; l'arte è spesso e volentieri sottoposta alla religione, alla morale, alla politica: sicchè fra uno scrittore eccellentissimo dal lato dello stile, che non segue e non lusinga le idee del tempo, e uno scrittore mediocre, che pensa e scrive secondo le opinioni della moltitudine, quest'ultimo, nove su dieci, sarà preferito.

La cernitura del tempo galantuomo vien sempre tardi, e talvolta avviene che i buoni e gli eccellenti per non avere avuto ai giorni loro la debita rinomanza, nè trovato dopo morte uno studioso autorevole che richiami su loro l'attenzione degli uomini, rimangono eternamente dimenticati.

E questo che si dice pressochè assolutamente rispetto ai contemporanei, può fino a un certo segno riguardare anche i posteri; presso i quali cresce o sminuisce la fama di uno scrittore non soltanto per la squisitezza dell'arte, ma secondo i gusti mutevoli delle nazioni e dei tempi e in proporzione dei rapporti e delle affinità fra le opinioni e i sentimenti da lui rappresentati e quelli che si hanno in un dato tempo e in un dato paese.

Il qual principio trova fra noi una perpetua conferma nella fama di Dante, la quale vediamo più o meno risplendere in ragione dell'altezza o bassezza dei nostri intenti religiosi, morali e politici: illanguidì, e cessò quasi nel seicento, secolo di ogni corrutela, si ravvivò nel seguente, secolo di risorgimento morale e politico, si diffuse notabilmente ai dì nostri che devono il concetto dell'Alighieri recare in atto.

Per ispiegarci dunque la ragione della cresciuta fama d'Orazio al tempo nostro occorre fare alcun cenno del suo modo di pensare, di sentire, di vivere; e cercare se fra il suo e quello della presente età ci sia qualcosa di simigliante e di affine.

Orazio non fu propriamente un pensatore; della filosofia di Epicuroegli prese quel tanto che si riferisce alla pratica della vita; dello stoicismo fece sfoggio di sentenze, non regola di condotta e forse internamente ne rise: all'animo suo di giunco quella rigidità d'acciaio dovea riuscire poco meno che stolta e ridicola; e tal giudicò la magnanima resistenza dei repubblicani a Filippi, dove i più baldi batterono il muso in terra, quando lui, savio, gittò vio lo scudo, e fuggì.

Religioso egli non fu mai, se non quando Augusto glielo comandò; e la sua religione allora fa ridere, perchè sotto la maschera dell' entusiasmo sacro si sente e si scorge il sogghigno dello scettico. Circa a morale, non la portò mai oltre i limiti di un ragionato e onesto egoismo: far bene a sè come e quanto è possibile, senza nuocere agli altri: non amar fino al sacrificio; non odiare per non guastarsi lo stomaco: sorridere e compatire, osservare i fenomeni della vita e restare indifferente ai colpi della fortuna.

Equanimità assai lodevole certamente, ma nella quale, a dir vero, non ci lasciò altra prova che di sentenze: talchè non sappiamo come si sarebbe contenuto, se, mettiamo il caso, fosse caduto in disgrazia di Augusto o di Mecenate, e se fosse stato costretto a esulare come Ovidio, o a tagliarsi le vene, come Seneca.

Afferrare il buon istante, non darsi cura del resto: ecco il pensiero principale di tutta la lirica di Flacco: pensiero ripetuto, colorito, variato in tutti i modi e le forme che l'arte sovrana può suggerire; si che non è facile in tutta la storia della poesia trovare un canzoniere così monotono e così vario, tanto povero di pensiero e tanto ricco d'immagini, tanto volgare nel fondo e tanto nobile nella superficie, come quello di Orazio, che fra tutti i poeti, non escluso il Petrarca, è rimasto per questa sua qualità il più gran maestro di stile.

III


Tali essendo i pensieri di Flacco, ben potrebbe sembrare agli ingenui non esser fra quella sua poltronaggine filosofica e la nostra vita presente alcun addentellato e riscontro; essere anzi tanto lontani ed estranei al nostro modo di vivere e di pensare quanto l'infingardaggine dalla operosità, la ribellione titanica dalla viltà.

E giudicando dai discorsi che comunemente si fanno circa alla fierezza del genio latino, alla nobiltà del nostro sangue, all'epica grandezza delle nostre gesta, alla redenzione delle nostre menti miracolosamente operata dalla nuova scienza e all'emancipazione e al risorgimento dell'arte italiana, noi ci dovremmo in verità proclamare nobilissimi e felicissimi di tutti i popoli della terra.

Ma, se alle scampanate e tribunizie dei Pangloss da caffè e da gazzette non si voglia accordare maggior credenza che ai fatti, noi dobbiamo confessare, anche senza corda, che la corruzione e la viltà dei nostri tempi ben potrebbe paragonarsi a quella dei più tristi periodi dell'impero romano, se i presenti uomini non fossero dappoco e meschini in tutto, anche nel delinquere e nelle lascivie.

Certo che dalle recenti dottrine e invenzioni scientifiche gran lume e incremento può e deve ricevere l'ingegno e la vita degli uomini, che slacciati in parte dei vecchi pregiudizi, e guariti dei deliqui ascetici e dei deliri metafisici, hanno ormai forze e libertà da provvedere al miglior essere della loro vita.

Ma finchè tali dottrine non saranno principalmente rivolte a educare il cuore, a fortificare il carattere, a rendere men vana e men bestiale la vita, i benefici che ne potremo ricevere saranno sempre scarsi e piuttosto illusori che reali.

E altro che pompe di libri e strepito di erudite polemiche, bisogna pur convenirne, non ha saputo produrre in Italia il così detto positivismo; nè altro ci darà probabilmente per qualche tempo, finchè la smania vanitosa di apostoleggiare trasporterà i nostri filosofi oltre i termini della scienza stessa, e la ignoranza maligna dei gazzettieri, esagerando a fine di scandalo e di nomea i principi della nuova filosofia, distoglierà i buoni e discreti dall' apprezzare e seguire ciò che viene a loro rappresentato come indizio e fomite di soqquadro e di distruzione di ogni ordine sociale.

Indi avviene che la scienza, la quale dovrebbe essere ausiliatrice e moderatrice suprema della vita, è dalla vita studiosamente lasciata in disparte; e la morale, la politica, l'arte, se ne vanno ognuna ruzzolando per la sua via, guardandosi in cagnesco e vituperandosi se per caso si vedono da lontano.

Indi l'indifferenza o l'impassibilità, o, come peregrinamente dicono, atarassia, dichiarata il miglior frutto dell'umana saggezza e solennissima virtù d'un animo consapevole di sè stesso; l'ipocrisia prudenza necessaria al ben essere; arte sapientissima di governo la slealtà, destrezza e oculatezza la frode; industria non pur tollerata ma pubblicamente lodata il traffico delle opinioni, delle testimonianze, dei voti nelle commissioni, nei tribunali, nelle assemblee; operosità e versatilità d'ingegno mirabile l'intrigare, ingannare e missare a proprio vantaggio; e uomo di spirito chi vanta nelle brigate le proprie dissolutezze, e fa ridere con la narrazione delle proprie viltà, infischiandosi del biasimo e del disprezzo di qualche onesto, a cui da titolo di parruccone e d'inetto la turba petulante dei saccentelli sfringuellante e minosseggiante su pe' fogli cotidiani del regno.

E quasi a ravvivare e illuminare cotanta putredine, uno sfiammare universale di umanità, di carità o di altruismo, per dirla alla barbaresca, sfogante e prorompente a ogni menoma occasione in associazioni filantropiche, in commissioni di soccorso, in passeggiate di beneficenza e contribuzioni e rappresentazioni e balletti e numeri unici e tant'altri beni, scavitolati dall'ipocrisia, congegnati dalla moda e suffragati dalla pecoraggine umana, a onore e gloria, se non a materiale vantaggio, dei promotori.

Se poi ci volgiamo all'arte o particolarmente alla poesia, pedantesca imitazione ci occorre trovare, con sapiente studio dell'arte antica; passione e mania di capovolgere le cose, con irragio-nevole amore di novità: più brama di scandali che intelletto di riforme, più libidine di notorietà che ambizione di gloria.

Critici che si scalmanano a predicare la sanità, la serenità, la paganità, quale termine ultimo di perfezione, a cui possa e debba giungere l'arte umana; come se stesse a un uomo, a un paese, a un'età il riprodurre un fenomeno storico, e fosse possibile la antica serenità inoculare e trasfondere in anime e corpi come i nostri debolissimi, infermissimi e irritabilissimi per naturale peggioramento di razza, per malefici di religione, per troppa esperienza di viltà, per febbre insanabile d'ideale.

Ond'è questo sente, intende, vuole e in parte possiede la generazione presente. Alla quale, se non mancasse un artista sommo, qual fu il Venosino, potremmo forse mostrarci meno severi e arcigni; ma disgraziatamente l'amore e lo studio d'Orazio non ci ha dato finora che versi disarmonici senza rima e canzonieri miserevoli senza pudore.

(dicembre 1885).