Della congiura di Catilina/XXXIII
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Traduzione dal latino di Vittorio Alfieri (1798)
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Cajo Manlio frattanto dal suo campo spiccava ambasciatori che a Quinto Marcio Re queste sue parole riferissero: « Attestiamo noi gli uomini ed i Numi, che armati, o Imperator, non ci siamo nè contro la patria nè per offender privati, ma per porre in sicurezza da ogni offesa noi stessi. Infelici noi, indigenti, dalla violenza e crudeltà de’ barattieri siam dispogliati, alcuni della patria, tutti dell’onore e ricchezze: nè ad alcuno di noi concedevasi, come già ai nostri maggiori, il favor della legge, per cui, perdute le sostanze, ci rimanesse almen libertà; cotanta era la inumanità dei creditori e dei giudici. Spesso i vostri avi compassionando la plebe, con leggi sollevarono la sua povertà: e ultimamente a memoria nostra, stante la quantità immensa dei debiti, acconsentirono tutti i buoni cittadini che se ne pagasse la quarta parte soltanto. Spesso la plebe medesima, o per amor di dominio, o per non patire superbi comandi, si armò e segregossi dai patrizj. Noi, nè dominio vogliamo, nè ricchezze, vive cagioni d’ogni discordia e guerra fra gli uomini: bensì libertà vogliam noi, che ai buoni non mai se non con la vita si toglie. Te scongiuriamo e il Senato, che a noi cittadini infelici provveggasi; che la legge per iniquità del Pretore sottratta restituiscasi; e che noi non mettiate nella dura necessità d’intraprendere, in qualche modo, prima di perire noi stessi, una qualche memorabil vendetta, della nostra uccisione ».