Del veltro allegorico di Dante/XVII.
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XVII. Nell’atto che ciò avveniva in Firenze, Uguccione della Faggiola e i suoi fratelli Ugo e Ribaldo insieme con Federigo di Monte Feltro fermarono pace con Malatesta di Verrucchio e con Guido III da Polenta: lieto il pontefice comandò al bolognese Ranieri dei Samaritani, chiaro poeta di quella etá, che assolvesse i Faggiolani e Federigo dalle censure. Da questo di Uguccione mostrossi non leggermente arrendevole ai voleri del papa; e, per la sesta volta podestá di Arezzo, attese con pacifici studi a riordinar la cittá, eletto un consiglio di cento che ne raccogliessero e pubblicassero gli statuti. Dante allora dimorava in Siena; infido ricetto, che in breve gli fu forza di abbandonare per venirne ad Arezzo. Qui egli conobbe il Faggiolano con messer Bosone di Gubbio; ma piú saldi vincoli di amicizia l’avvinsero a quello, per non parlare degli altri remotissimi della comune parentela cogli Onesti di Ravenna. I medesimi affetti politici, le medesime ambizioni agitarono la vita del poeta e del guerriero: buona pezza la vissero insieme; la terminarono poco di lungi l’uno dall’altro.
Firenze intanto si spopolava dei principali suoi cittadini: uscivano volontari per non essere spettatori dei furti e delle violenze: assenti dai giudizi di Cante Gabrielli, erano riputati rei; stando ai giudizi, pagavano: poscia per nuovi pretesti ne givano in bando. E piú leggiadro e maggiore si teneva qualunque piú gridasse morte addosso ai bianchi ed ai ghibellini: fosse stato pur egli fino ad allora dei piú ghibellini. Tale Fazio da Signa, tale Baldo di Aguglione (Parad. XVI, 56 e 57); ghibellini accesissimi, che innanzi tutti si diedero alla persecuzione dei bianchi. Ma, crescendo le ire civili contro gli offesi, Cante s’infinse di voler vedere i giá dieci priori da lui banditi venire ad esso per iscusarsi delle generalitá, ch’egli loro apponeva. E, perché niuno venne davanti a tal giudice, nel lo marzo 1302, non piú a multe o a brevi esili, ma condannò tutti quei dieci al fuoco se fossero presi, e fra questi Dante Alighieri: accoppiando loro nella stessa pena Gherardino Diodati e Lapo Salterelli, ed inoltre Lapo Domenichi ed Andrea Gherardini e Giunta dei Biffoli, che avevano esercitato le piú eminenti cariche in Firenze. Alla fine Carlo di Valois credè inutile l’ipocrisia di osteggiare i bianchi ed i ghibellini con falsi delitti: ei ne cacciò in esilio settanta, sol per avere un anno innanzi contradetto alla sua venuta (aprile 4). Ciò fatto, partì l’indomani per la guerra di Sicilia, lasciando Firenze all’arbitrio di messer Corso Donati e dei suoi, fra i quali era primo messer Rosso della Tosa: questi è Carlo che Dante appella traditore senz’armi (Purg. XX, 73 e 74). Né Cante Gabrielli si rimase dal proscrivere indistintamente i bianchi ed i ghibellini, specie affatto diverse di uomini e professatori di opposte dottrine; quantunque pari sventura li riunisse ora contro uno stesso inimico. Giova qui registrare i nomi di alquanti esuli, dei quali si dovrá toccare in appresso; e così dell’una che dell’altra specie. Degli antichi ghibellini Cante scacciò Lapo figlio di Farinata e l’indomabile parente di lui Tolosato degli Uberti con la maggior parte degli Ubertini; scacciò Bertino Pazzi, Branca e Chele Scolari, Guglielmo Ricasoli, e gli Ubaldini pressoché tutti: di costoro, morto Ubaldino della Pila, era divenuto capo suo figlio Ugolino di Feliccione, fratello del giá trapassato Ruggieri arcivescovo di Pisa. Dei guelfi detti bianchi, oltre i dodici priori, furono banditi gran numero di Cerchi, l’animoso Baschiera della Tosa con altri Tosinghi, Mino di Radda, i Pulci, gli Arrigucci e i Mannelli e i Rinucci.