Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo XII
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Capitolo Duodecimo
Quai premi avviliscano meno i letterati.
Pure, non voglio io per una severitá che in questi snervati secoli parrebbe soverchia (benché soverchio non sia mai ciò ch’è vero) privare gli scrittori, che uomini sono anch’essi pur troppo, della dolcezza di tanti altri premi che gloria non sono, ma che non paiono alla gloria nocivi. Mi giova perciò l’investigar brevemente quali siano codesti premi, e chi dargli e chi riceverli possa.
Premi che non siano gloria, e che pure non la vengano a contaminare con la loro mistura, altri non so vederne, fuorché certi onori, tributati quasi a nome di tutti, dagli uomini costituiti in una legittima dignitá, a chi se ne sia fatto degno. Questi onori, che mi paiono essere i soli veraci, sono raramente concessi nelle repubbliche; perché l’autoritá essendovi divisa e permutabile in molti, non v’è mai fra i dignitari una tale persona e sí grande, (parlo di estrinseca grandezza) che venga stimato un onore appo gli uomini il sederglisi accanto, il coprirsi, il mangiare alla mensa sua, o simile altra principesca puerilitá. Oltre ciò, le repubbliche volendo, e con ragione, che ogni loro individuo cooperi all’atto pratico del presente vantaggio, hanno tenuto per lo piú gli scrittori per una gente viziosa e poco utile. E in fatti, le lettere possono parere meno utili assai in una sana repubblica, dove gli uomini son buoni giá dalle giuste e ben eseguite leggi, che non in un principato dove giá sono pessimi dal servire. Ma per una trista fatalitá, elle possono nondimeno piú facilmente allignare lá dove il bisogno di esse è molto meno incalzante. Ove però le repubbliche volessero pur dare alcuni onori a chi ottimamente scrive, innegabile è ch’elle sole li potrebbero dare veraci. Se Sofocle, per esempio, avesse ottenuto dalla sua cittá, per legge vinta, di sedersi infra i piú alti magistrati, o alcun’altra simile distinzione; essendo una tale particolaritá accordata dai molti, lá dove i molti negarla o impedirla poteano, vero ed importantissimo onore, nobile e sovrano premio si dovea un tal privilegio riputare. Ma se un solo, a cui nessuno può né osa contraddire, accorda una qualunque distinzione, ella dee intitolarsi favore, e non mai onore; perché non fa prova di merito niuno; e quindi, potendola ottenere un inetto, e assai piú facilmente che un sommo uomo, necessariamente diviene questa distinzione una macchia alla vera virtú. Le sole repubbliche adunque onorare possono davvero i loro scrittori; i principi null’altro possono se non se favorire e distinguere i loro schiavi. Quindi, l’essere scrittore pubblicamente onorato in repubblica, attesta l’aver dilettato e giovato ai piú; l’esserlo nel principato, attesta l’aver forse dilettato i piú, ma l’avergli ad un tempo traditi, cercando con false massime di giovare ad un solo. Ciò posto, se io risguardo Cicerone come semplice letterato, non lo biasimo quindi moltissimo dell’essersi voluto far console; eppure, per acquistare una tal dignitá in quei tempi, molti raggiri, pratiche e viltá gli sará convenuto adoprare, il che senza dubbio gli sará riuscito di molto minoramento alla stima di se stesso, all’altezza dell’animo suo, e quindi ai suoi libri, alla sua fama, alla sua gloria. Ma la maestá e importanza di una tale e fin allora legittima dignitá; la nobil fermezza con cui la esercitò Cicerone; la difficoltá dei tempi; l’esser egli nato libero ancora, e perciò necessario membro della repubblica; e in fine, l’aver egli fra tanti torbidi con tanto calore e felicitá coltivato sempre le sacre lettere; tutto questo ammirare e scusare e venerare mi fa Cicerone. E credo che ad ogni letterato perdonare e concedere si potrebbe, il volersi delle lettere far base e scala a divenir console in Roma a quei tempi; cioè a divenir piú grande, piú importante e possente di assai piú largo nobile e legittimo dominio, che nol sono dieci dei nostri moderni re, presi a fascio. Ma pure, nel perdonargli una tale ambizione, bisognerebbe confessare ad un tempo che codesto scrittor-consolo nuocerebbe non poco alla perfezione dell’arte sua; e si dovrebbe pur sempre riguardare da chi è ben sano di mente, come un traditore delle lettere. Costui dunque in suo cuore avrebbe creduto essere maggior cosa un console, che un perfetto scrittore; e che quella pubblica carica, data da altrui, fosse piú importante cosa che non la sua privata altissima carica di scrittore; carica che niuno può dare né tôrre: non si sarebbe ricordato costui che dei consoli ve ne erano stati a centinaia, e che gli eccellenti scrittori ad uno ad uno e pochi si annoverano; e da questa sola colpevole dimenticanza del primato innegabile dell’arte sua sovra tutte, ecco tosto lo scrittore fatto minore della propria arte.
Tolta adunque ai letterati ogni speranza ambiziosa o nociva nelle repubbliche; tolta loro ogni ambizione di onori e di ricchezze nel principato; ad essi non resta, oltre alla gloria, altri premi che non gli avviliscano, fuorché i semplici onori, nelle repubbliche. E dico espressamente, «i semplici onori» e non le cariche o dignitá; perché queste non si possono ottenere senza gareggiare coi concorrenti; e il gareggiare, allorché in virtú schiettamente non si gareggia, suppone sempre un raggiro e delle pratiche non letterarie affatto, e indegne perciò d’un vero letterato. Né si possono le cariche o dignitá esercitare a dovere, senza abbandonare, o sospendere e guastare gli studi. Non è dunque scusabile mai, né merita gloria quell’uomo, che sprezzatore si fa della propria arte. E si avverta che le Muse sdegnose non sublimano mai sovra gli altri colui che non le apprezza e sublima sopra ogni cosa.
Dolce e grandioso spettacolo sarebbe stato, se Atene, in vece di uccidere Socrate, lo avesse fatto sedere pubblicamente in mezzo agli arconti, senza esserlo; cosí se gl’inglesi avessero a Locke e a Milton assegnato luogo in parlamento, senza formalitá di elezione, né esercizio di carica alcuna; ma ivi collocatili, quasi una gemma nazionale, degna di rilucere tra il fiore di una cólta e libera nazione. Sono questi gli onori, che per essere parte di schietta gloria, potrebbero soli desiderarsi e riceversi dai letterati, senza veruno loro minoramento.
Se io potessi insegnar precetti di cosa non degna, circa agli altri premi tutti, possibili ad ottenersi dal principe, a quei letterati che, poco degni di un tal nome, volessero pure ottenerne alcuno, consiglierei che accettassero quelli soltanto, i quali piú dalla persona del principe allontanandoli, meno d’alquanto gli avvilirebbero. Ma tra i premi e gli onori tutti che il principe può dare allo scrittore, il primo, il sommo, il solo che desiderare degnamente dallo scrittore si possa, sia questo: «Che il principe, non togliendogli il pensare ed il dire, non approvi, non impedisca e non legga i suoi libri».