IV.

../III. ../V. IncludiIntestazione 1 febbraio 2015 100% Da definire

III. V.
[p. 23 modifica]

IV.


La tristezza è un’altra affezione che anch’essa toglie il coraggio. L’ill. Camus1 paragona la gioja ad un prisma che manda i più bei colori in sugli oggetti, e la tristezza ad un vetro magico che fa comparire le cose spoglie del loro bello, e tutte alterate e disgustose. E come è legge della natura de’ nostri sentimenti, che più ci colpisca ed interessi un’immagine tetra e spaventosa, che un’altra vaga e ridente; così ne avviene che la tristezza abbia più di forza su noi, e per conseguenza tenga lontana l’altra affezione a lei contraria che è il coraggio, il quale benchè soglia rappresentare le cose in aspetto migliore, pure perchè in tal caso ci è meno accetto per la ragione suddetta, egli cede, e l’altra trionfa.

[p. 24 modifica]Due spezie di tristezza lo stesso Camus distingue; l’una reale e positiva, l’altra immaginaria e proveniente da un falso principio. La prima è figlia del dolore, la seconda dell’opinione. Da qualunque principio ella proceda, è dessa tra le passioni le più nocive. Perocchè la collera, la paura, la brama, l’amore, ec., ci lascian almeno degl’intervalli; laddove la tristezza ci perseguita senza interruzione, e di mano in mano che si va facendo abituale, va abbattendo le buone proprietà dello spirito, ed imprime l’istessa sua mala indole al temperamento istesso. Ond’è che alcuni fatti tristi vanno a soccombere o per ragione della malattia della tristezza medesima, o per la malvagia influenza che ne ricevono le altre particolari infermità, di cui erano indisposti.

La tristezza dunque va sbandita, e va richiamato il coraggio. Il ragionare è da uomo, e il ragionare dèe trionfare su [p. 25 modifica]d’essa, sia ella nata dalla prefata prima cagione, cioè dal dolore, sia dalla seconda, cioè dall’opinione. Si può avere il dolore e sentire il peso del male, e si può insieme nè atterrirsi, nè intristire, nè farsi melanconico e conturbato. Aver un’anima inferiore alla sorte è una viltà. Que’ tratti di franchezza filosofica che si leggono nelle storie, d’uomini forti negl’infortunj e nelle corporali indisposizioni, sono tratti ch’esser dovrebbero il partaggio di noi tutti, tanto più che sono voluti dalla religione, dal senso comune, e dalle rette leggi mediche, le quali considerano un accrescer i mali coll’unirvi una renitente e sconsolata sofferenza.

Quando che l’uomo infermo non divenga nè pauroso nè triste, divien anco coraggioso, e mettesi conseguentemente in maggior vantaggio contro tutto il circolo del malanno.

È impossibile quasi il non [p. 26 modifica]inciampare in infermità; dunque che ne sarebbe, se ognuno che s’inferma, avesse a cadere in tristezza, cioè in un doppio male? e se difficilmente si sostiene il primo, quanto più difficilmente se li sosterranno amendue?

Per guarire si ha da desiderare, che tutto il complesso della macchina mantengasi in un giusto ordine di azioni e di reazioni, così che tutte le funzioni naturali, benchè stornate ed alterate, ritornino nel loro essere, mercè o il felice contrasto delle naturali forze corporali, o gli ajuti e i compensi che l’arte medicinale va somministrando. Tanto meno dunque ciò seguirà, se un nuovo disordine concorrerà a sgangherare vie maggiormente questo complesso macchinale, e queste naturali intime operazioni; giacchè sappiamo, e gli osservatori ce lo ripetono, che dalla tristezza tutto il corpo è turbato, gli appetiti illanguiditi, le digestioni [p. 27 modifica]interrotte, lo spirito e i nervi spossati, gli umori corrotti, e mille altri disturbi in tutte le viscere si generano, come evidentemente il veggiamo negli scorbuti, e nelle malattie putride e contagiose, alle quali si congiunge quasi sempre ancora la tristezza.

Di più se v’è male alcuno, conviene d’ordinario abbracciar cure mediche instantanee, forzose, positive; e se v’è mal cronico, si dèe intraprendere regime di vita il più esatto, e il più fastidioso e lungo. Per l’uno e per l’altro non v’ha che lo spirito che vi ci faccia decidere daddovero. Immaginiamci che questi ammalati sieno in tristezza, eglino al certo non si sottometteranno nè all’un partito nè all’altro. Ed ecco un duplicato ritardo ed inciampo al loro risorgimento.

Se il sin qui detto pare che valer debba ad isgombrare quella tristezza, che deriva dall’esistenza del male e del dolore, [p. 28 modifica]tanto più dèe parer valevole ad isgombrar l’altra che non è che ideale e senza fondamento. Posto ciò, non vi è che il saggio Professore assistente che sappia procurare l’allontanamento di siffatta prava passione, troppo contraria al ristoro e alla risanazione del suo malato, e richiamare il benefico coraggio, ottimo dispositore al meccanico riordinamento delle parti del corpo, e alla utile applicazione e profitto de’ rimedj, non che alla docilità ed ubbidienza del malato stesso verso le sue ordinazioni.


Note

  1. Méd. de l’Esprit Vol. II, pag. 299.