Del coraggio nelle malattie/II.
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | I. | III. | ► |
II.
Mille cose tolgono il coraggio, e mille il possono insinuare o ravvivare. Per altro il temperamento, e l’educazione contribuiscono non poco o a non averne, o ad esserne pieni. Questa osservazione la ci risulta dal vedere varj ammalati compresi all’incirca da consimili malattie, e ognuno variamente o lagnarsi, o paventare, o smaniare, o starsi placido, sofferente, rassegnato, coraggioso. Questa varietà in tal caso non tanto dipende da intrinseca varietà di male, quanto da diveristà di abitudine in sentire e in tollerare gli’incomodi. E cotal abitudine la ci viene appunto sia da quella costituzione di corpo, d’onde è ciò che dicesi temperamento, per cui l’uomo sente, ed a norma di quanto sente egli pensa ed agisce; sia dalla maniera colla quale siamo fisicamente e moralmente allevati. Scrisse Cicerone1, che il costume non avrebbe mai la maggioranza sulla natura, perchè questa è insuperabile; ma molti di noi colle larve, coi delirj, coll’ozio, col languore, coll’infingardia, abbiamo alterato l’animo, e non operiamo come dovremmo.
Nelle malattie si palesa il carattere nativo, e avventizio de’ pazienti, meglio che in qualunque altra circostanza. L’effeminato, ed il magnanimo, il pauroso ed il coraggioso, l’incostante e l’immutabile, l’indocile e il docile, gli scopriamo noi Medici agevolmente nella loro camera e nel loro letto del dolore, quando altri ben difficilmente altrove li discoprono per tali. In conseguenza di ciò quello che leva o che dà il coraggio, è più o meno valevole secondo la detta varietà de’ temperamenti, e delle educazioni. Così fatto avvertimento è bene averlo sempre sott’occhio, acciocchè si debba, nel progresso del presente discorso, estendere su questa norma, ovvero ristrignere le proposizioni, che rapporto alla quantità del coraggio si andranno mettendo.
Note
- ↑ Tuscul. q. lib. V, cap. 17.