Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo VI
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo V | Capitolo VII | ► |
Allorchè io ho preso a trattare della giurisprudenza, mia intenzione al certo è stata di proccurar, se pure è possibile, più giustizia, e meno ingiustizia fra noi. Ma mi convien ora confessare, benchè sospirando e gemendo, che lo scoprimento e la conoscenza del giusto, sono imprese difficilissime all’umana natura nello stato presente, troppo diverso da quello, in cui Dio creò la prima volta l’uomo. Gli antichi favoleggiatori finsero, che la giustizia non potendo reggere a i vizj delle genti se ne volasse in cielo. Io la credo tuttavia in terra: ma involta in molte tenebre, a rischiarar le quali non rade volte nè pur giungono i veri amatori e cercatori della giustizia. La ragione, e la sperienza ce ne faranno accorti. Nell’uomo, non v’ha dubbio, si truovano o impresse da Dio con idee innate, o formate da un raziocinio facile ad ognuno, certe nozioni universali di quel che chiamiamo giusto o ingiusto, anche senza ricorrere alla rivelazione, cioè a quanto Iddio ci ha comandato o vietato nella sua santa Legge. Per esempio il commettere adulterio, l’ammazzare l’altr’uomo, il rubare la roba altrui, quand’anche Iddio, infallibil maestro del giusto, non l’avesse proibito, pure non solamente le dotte, ma anche le rozze ed ignoranti persone conoscerebbono, che sono azioni mal fatte, e da abborrirsi, e da detestarsi, perchè intrinsecamente cattive. Basta che noi misuriamo tali atti con quel primo nobilissimo principio, a noi insegnato da Dio, di non fare ad altri quello, che non vorremmo fatto a noi stessi, per tosto comprendere, che siccome offenderebbe noi, chi ci togliesse il nostro bene, così noi facciamo offesa al prossimo con levargli quello che è suo, e su cui noi non abbiamo diritto alcuno; facilmente, dico io, discerne ogni uomo, che l’ingiustizia ha luogo in tali disordinate azioni, e non già la giustizia, la quale è definita: « Una costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno, e per conseguente di non togliere a chicchessia il suo gius, o vogliam dire quello, che è a lui, e non già a noi dovuto ». Di queste patenti generali idee di giustizia in moltissimi affari del mondo, che appartengono al diritto della natura, e delle genti, signor si che suol essere provveduto l’uomo, anche senza logorar le panche della scuola. E tali cognizioni si stendono a conoscere molto paese nella materia de’ contratti, ne’ doveri dell’un uomo verso l’altro, nelle offese del corpo, e dell’onore, nel maneggio della roba altrui, e simili. Nè occorrono maestri per iscorgere, che la frode, l’inganno, la prepotenza, la calunnia, lo strapazzare il nome santo di Dio, o sia il bestemmiare, il tradimento, e simili, sono azioni per se stesse ingiuste, e cattive, degne di gastigo nel commerzio umano, e sempre generalmente parlando peccaminose. Secondariamente altre azioni si danno, che intanto son giuste o ingiuste, in quanto sono comandate o vietate dal gius positivo della Chiesa, o de’ principi temporali. Tali appunto sono moltissime leggi civili, e le statutarie della città, che danno regola al dominio de’ beni, alle successioni, e a i contratti, o pure proibiscono il far questo o quello. In assaissime di si fatte leggi si truova comandato o proibito quello stesso, che abbiam detto essere a noi ordinato o vietato dal diritto della natura e delle genti. Ed altre leggi poi unicamente son procedute dalla volontà e prudenza de’ legislatori, secondochè loro è sembrato utile per la Repubblica; ed avrebbono anche potuto ordinare il contrario, se ne fosse lor venuto il talento.
Ora le leggi primarie del giusto e dell’ingiusto son regole universali; e considerate nella lor generalità, non v’ha persona onesta ed intelligente, che non ne ravvisi tosto la bellezza e bruttezza, la rettitudine, e la mancanza. Ma che? Queste leggi non bastano a mostrarci in tutti i casi particolari ciò che abbiam si chiaramente osservato nella massima universale. E ciò perchè concorrono talvolta in casi tali circostanze di sì grande attività, che quello, che dianzi era giusto e buono, può divenire ingiusto e vizioso; e ciò, che era ingiusto e cattivo, può cessar d’essere tale. Il difetto della volontà, l’ignoranza, la paura, la forza, e il bene del pubblico possono produrre questa metamorfosi nel secondo ordine, e la malizia della volontà con altre cagioni, ch’io tralascio, nel primo. Confesserà ciascuno, che il soccorrere a i miseri, e il far loro limosina, è azione lodevole e giusta. Ma essa muterà livrea, se si farà per fine disonesto. All’incontro il levare la vita ad altrui, senza fatica si riconosce per una iniquità; ma se per difesa della propria vita un uomo ucciderà chi l’assalisce per ucciderlo, non commetterà ingiustizia. E ne pure la commettono i principi, e giudici, che condannano alla morte i malfattori, ne chi eseguisce la loro sentenza. Che se tale è l’attività delle circostanze, che può mutare infino il nero e il bianco delle leggi naturali: incomparabilmente più può accadere ed accade, che le medesime inducano varietà e mutazione nelle leggi, che sono emanate dall’arbitrio del principe o de’ popoli ne gli statuti. Imperciocchè ne’ casi particolari vestiti di tali e tali circostanze si può ragionevolmente provare, che entri più tosto una legge, che l’altra; o che non abbia luogo quella legge o statuto, perchè tale in quel caso non si dee presumere l’intenzion de’ legislatori, i quali regolarmente si debbono credere giusti e saggi; o perchè v’ha altre leggi in contrario; o perche ciò darebbe adito alle frodi, a gl’inganni, e ad altri mali, che si debbono tener lontani dalla Repubblica, per la cui utilità, quiete, e saggia libertà son fatte le leggi, e non già in suo danno e schiavitù. Altrettanto accade nelle liti, che frequenti insorgono per conoscere, qual sia la mente ed intenzione delle private persone ne’ testamenti, ne’ contratti, nelle transazioni, e in altri simili atti. Le circostanze, le parole diverse possono indurre diversità di volontà, provar la buona o la mala fede de gli uomini. Tutte poi le reflessioni, che si fanno per mostrare, che una legge comandi, o no, vieti, o no qualche cosa: o pure che la tal cosa sia o non sia: noi le chiamiamo ragioni. E di queste ragioni pro e contra tutto dì rimbomba il Foro giudiziale, combattendo avvocati e proccuratori per limitare o ampliare le leggi, o pure per escluderle ne’ casi loro proposti, ovvero per ispiegare più in una, che in altra maniera le volontà, le parole, e gli atti delle persone private.
Ora tante battaglie nella facoltà legale hanno origine parte dalle cose stesse, parte dal difetto, e parte dall’eccesso delle menti umane. Quanto alle cose, convien confessare la debolezza nostra: corte sono le cognizioni, e limitata la sfera dell’intendimento umano. Noi abbiam delle idee chiare del giusto e dell’ingiusto in moltissime azioni dell’uomo generalmente prese; ma qualora questa generalità passa a casi particolari, vestiti con tante varie circostanze l’una diversa dall’altra: allora ci si comincia ad imbrogliar la vista, e a non saper più ravvisare, se sia giusta o ingiusta, se vietata o comandata, se lecita o illecita un’azione, ne chi s’abbia la ragione o il torto di due contendenti. E ciò perchè le circostanze, siccome abbiam detto, fanno mutar faccia a gli oggetti, con giugnere la mente nostra a non saper più, con qual delle leggi, con qual delle massime e idee maestre s’abbia allora a misurare il caso particolare a noi proposto. V’ha delle dipinture bizzarre, che mirate dall’un de’ lati ci rappresentano un amenissimo luogo, o una bella persona. Tutto il contrario mirate dall’altro. E questo buio parimente s’incontra nella moral teologia, gran sorella della scienza delle leggi, per tacer d’altre scienze ed arti. In somma accade in tali materie scientifiche ciò, che avverrebbe in un uomo da noi ben conosciuto, il quale se ci comparisce davanti con un sol paio di mustacchi finti, non che con altri cambiamenti di viso, non sappiam più riconoscerlo per quello che è. Secondariamente all’oscurità delle materie si aggiugne poi la diversa disposizion delle teste de gli uomini, che maneggiano le bilance della giustizia. In alcuni abbonda l’ingegno, ma poco il giudizio; in altri la scienza è lieve, ma vigoroso il raziocinio, al contrario d’altri, che intisichiscono su i libri, ed hanno gran copia di leggi e paragrafi pronti, ma non sanno raziocinare. E v’ha chi cammina con alcune massime, ed altri con altre. Unita insieme questa varietà di menti colla difficultà della materia, bisogna per conseguente, che diversi ne procedano i giudizj, e che non i soli avvocati e proccuratori avversarj, ma anche gli stessi giudici, gli uni intendano in una maniera, e gli altri in altra la medesima quistione, il medesimo caso: cosa che miriam tutto di ne’ diversi tribunali, decidendo uno in favore dell’uno de’ litiganti, e sentenziando l’altro tutto all’opposto. E di qui parimente procede la diversità de’ pareri in un medesimo tribunal collegiale, composto di quattro, o cinque, o più togati, osservandosi due votare pro, e due altri contra nella medesima causa. Noi, dissi, tutto dì abbiam sotto gli occhi questa incredibil discrepanza di giudizj in chi si mette a giudicar della roba, della vita, e della riputazione altrui, senza por mente, che una patente dichiarazione della debolezza della giurisprudenza, e insieme una calamità grande nella Repubblica è il dover litigare o per conservare il suo, con pericolo in tanti casi, che non sia un azzardo la sentenza d’uno, o di più giudici. Misera dunque la condizion di chi dee litigare. Egli si crede d’andar a picchiare alle porte della giustizia, nè s’accorge, che va a mettere il suo alla ventura di un lotto.
Ma il male maggiore della profession legale è proceduto dall’eccesso dell’ingegno, e massimamente de’ consulenti. Allorchè si presenta ad un avvocato da patrocinar qualche causa, purchè la medesima non sia evidentemente, o assai probabilmente decisa dalle leggi, e resti alquanto dubbiosa, e molto più se assai dubbiosa: Giove quel dì gli ha mandata la buona fortuna per far pruova del suo felice ingegno, o ha almeno inviata qualche rugiada per la sua borsa. Allora tutto ardore si mette a pescar nella vasta sua libreria, e più nel mare del suo sapere, e del suo ingegno, ragioni ed autorità per far toccare con mano a i Giudici, che quel suo cliente ha ragion da vendere in quella controversia. Altrettanto farà l’avversario avvocato per l’altro cliente. L’uno dirà: qui è il giorno. Anzi che no, dirà l’altro: vi è chiaramente la notte; e il mezzo dì è dalla parte mia. Nè altro sovente vi sarà di certo, se non che il giudice, senza veder giorno nè notte da questa o da quella parte, resterà egli stesso immerso in un profondo buio. Ora non si può dire di che sia capace l’umano ingegno, e massimamente se acuto, se penetrante, se assai versato nelle battaglie del foro, e in quelle maggiori, che s’incontrano ne’ libri. Truova mirabili sottigliezze, disotterra o inventa cento ragioni, distinzioni, riflessioni, presunzioni, eccezioni, che tutte possono dar buon’aria all’assunto suo; e questo vel dipigne con tal garbo di frasi e parole, che vi par tutta giustizia la di lui pretensione. Ed affinchè non si creda a lui solo, conduce una vanguardia, e un battaglione d’altri autori, che sentono con lui. L’ho detto, e torno a dirlo: innumerabili sono i casi particolari, ne’ quali ci manca un’idea certa del giusto e dell’ingiusto. Si riducono questi alla categoria del dubbioso, dell’opinabile; e però si tratta allora di far comparire più o men probabile e verisimile una cosa: nel che l’ingegno può lavorare come in campo larghissimo. Allora non è più il legislatore, che decide la lite: è l’ingegno di chi la protegge, è l’ingegno del giudice, che conforme l’intende, butta là una sentenza. Avvertì già Epitetto, che le cose ed azioni umane hanno due manichi: noi diciamo il lor diritto e il loro rovescio. Vien l’ingegno dell’uomo, e ve ne dice tante, che le fa confessar utili, oneste, giuste. Quel medesimo ingegno poi, se si metterà a volervele far comparire tutto l’opposto, arriverà anche ad ottenere il suo intento. Carneade è famoso, perchè si vantava di saper provare giusto quello, che comunemente veniva creduto ingiusto, e voltata faccia di saper provare ingiusto il giusto. Siccome uomo di massime pericolose per parer di Catone fu cacciato da Roma. Ma non finì già in lui quest’arte; perchè restò in Grecia, ed anche in Roma la scuola de gli accademici; ed è questa passata in assaissimi legisti de gli ultimi secoli, dedicati allo stesso mestier di Carneade, col fare da avvocati delle cause, e valersi anche in vece di ragioni, di sofismi e sofisticherie, che talvolta non si possono avvertire e sciogliere se non da chi ha maggior forza di mente, e sa ben raziocinare, e non già dalle picciole teste. Se aveste bisogno, che costoro vi provassero, che Nerone è stato un ottimo imperadore, che la febbre quartana è un bel regalo della natura: pagateli, e vi serviranno. Perciò leggendo i libri de’ vecchi nostri giurisconsulti, poco si truova nella facoltà legale, che non sia controverso; e ciò parte per l’oscurità delle leggi, parte per la voglia ed impegno di contradire, o per comparir begl’ingegni, o per la debolezza delle teste umane, o per la difficultà di raggiugnere il vero; il che vien confermato dal Deciano, cap. 19 n. 12 della sua Apologia.
Ora è accaduto, che questi avvocati, o sia consulenti han pubblicato le loro maravigliose fatiche sotto nome di consigli, consultazioni ed allegazioni; e quei, che son venuti dopo di loro, han cominciato a citar le loro dottrine ed opinioni, qualora ne è lor venuto il bisogno; e i trattatisti anch’essi le hanno infilzate ne’ libri loro: il che ha sempre più renduta incerta, e piena di dubbj, d’opinioni, e di opinioni opposte, la giurisprudenza, senza badare, che l’ufizio di costoro può essere stato talora quello di cercare il vero e il giusto; ma più sovente quello di cercare, che vincesse il suo cliente, ragione o torto ch’egli avesse. Le più di tante opinioni contrarie e contradittorie nella facoltà legale, vengono da i molti e varj consulenti, che secondo l’esigenza delle lor cause tenevano e sostenevano un’opinione, mentre altri per tutto diverso bisogno ne insegnavano e fomentavano un’altra. E a misura poi che altri posteriori consulenti ed avvocati abbisognavano di quella prima opinione, attaccavansi ad essa: laddove altri bisognosi della contraria si faceano forti colla contraria d’un altro autore antecedente. Nè si dica: questo l’ha detto Bartolo, Baldo, i Socini, il Bero, il Cumano, il Fulgosio ecc. Sono grandi uomini, ingegni grandi; ma anch’essi vendevano una volta il loro ingegno a chiunque li pagava, perchè colla loro acutezza vincessero la lite presente; e non già per dare al pubblico una regola sicura del giusto e del vero nelle tali e tali cause. Anche allora vi sarà stato qualche valoroso causidico od avvocato, che avrà composto consigli con dottrine ed opinioni opposte, e forse più plausibili, benchè non dati poi alle stampe, nè pervenuti a notizia nostra. Perciò ordinariamente non dovrebbono mai essere le sottigliezze ed animosità de’ consulenti quelle, che dirigessero la mente de’ giudici, perchè quella è mercatanzia pericolosa, e nata non rade volte per ingannar chi le crede.
In somma l’eccesso dell’ingegno ha servito ad accrescere l’incertezza di quel che per se stesso era anche incerto; e siam giunti a tale, che le tante sottigliezze de’ giurisprudenti hanno più che mai imbrogliata questa professione, senza che si sappia in infiniti casi, dove posare il piè con sicurezza. Se voi volete per un’opinione dieci e più autori, date tosto di mano al Cardinal Tosco, al Castejon, al Sabello: gli avete in pugno. Se vi occorre la contraria opinione, ed altri dieci e più, che la fiancheggino, voltate carta, e felicemente ve li troverete. Quella è una bottega di rigattiere, dove ognun truova quella veste, ch’ei cerca fatta al suo dosso. Tant’oltre poi sono iti i lambicchi della repubblica legale, che (per tacere de’ contratti e di tant’altri atti) beato quel testamento, dove l’umana pazzia vuole stendere la sua giurisdizione sopra i secoli avvenire, con formare eterni fideicommissi, che non sia suggetto un dì o al pericolo, o alla disavventura di vedersi sfregiato e guasto da questi fieri esaminatori delle menti altrui, i quai vogliono a tutte le maniere, che un testatore abbia pensato, come pensano essi. È bizzarro il caso riferito dal Cardinal de Luca de fideicommissis, disc. XCIII. Uno di que’ forbiti giurisconsulti, che tante e tante palme avea riportato ne’ tribunali di Roma, e per conseguente dovea saperne più di Triboniano, e più anche della Sibilla, ordinò nell’ultimo suo testamento un fideicommisso di tela si lunga, che protestava di voler che durasse fino alla millesima generazione. Varie e varie sustituzioni di quattro suoi figliuoli maschi, di agnati e cognati quivi si leggevano, affinchè durasse intera, e non mai si alienasse, nè passasse fuori de’ chiamati la sua eredità; o con dichiarar finalmente, che in qualsivoglia caso di dubbio intorno alla sua volontà, si avesse da interpretare in favor del fideicommisso. Volete altro? non andarono molti anni, che insorse lite, e si volle terminato il fideicommisso con tale sparata di quelle recondite dottrine, che somministra l’arsenale delle sottigliezze, che uno de’ chiamati sbigottito giudicò meglio di strozzar la causa con una transazione svantaggiosissima, che di aspettare l’evento dubbioso di una sentenza. Oh che un gran santo era, ed insieme personaggio di gran mente Bernardo abate di Chiaravalle! Intorno a i suoi giorni, o poco prima, saltarono fuori le leggi romane, in gran parte sepolte o poco curate per varj secoli. Ed egli fin d’allora conobbe, che questo copiosissimo magazzino di giustizia era anche un fecondissimo seminario di liti. Scrisse egli perciò a Papa Eugenio nel lib. I, cap. IV de consider. in parlando delle leggi di Giustiniano rimesse in voga: « Hæc autem non tam leges, quam lites sunt, et cavillationes subvertentes judicium ». Tralascio ciò, che in questo proposito scrisse Guglielmo Budeo, e spezialmente Giusto Lipsio, Monit. Polit. lib. 2, cap. 20, e nelle Epistole, deplorando tante liti, come originate da tante leggi; imperciocchè sì fatti malanni son provenuti e provengono, non già per colpa delle leggi, che son buone e belle, ed inventate per risparmiare o troncar le liti, ma per l’abuso, che ne ha fatto e fa l’acutezza maliziosa de’ causidici. Parimente è succeduto, che dopo aver questi lambiccatori inventati tanti intricatorj nella facoltà legale, per necessità si sono ancora fabbricate tante clausole preservatorie, derogatorie ecc. e guai se un ignorante notaio in qualche contratto da lui rogato, in un testamento, in uno strumento di dote, e simili, non sa ben munire con queste vanguardie e retroguardie l’intenzione de’ contraenti: aspettatevi pure un litigio. Ed anche si disputerà, qual forza abbia una clausola posta nel principio, o nel mezzo, o nel fine, e quale in diversi casi la codicillare con tante altre o tacite, o espresse, ch’io tralascio, e formano una vasta selva di dispute, che tutto dì infestano il Foro, ma più la borsa de’ poveri astretti a litigare. Non è egli dunque da deplorare lo stato infelice dell’umana giustizia? E non dee egli tremare, chiunque si sente chiamato in giudizio, o dee ricorrere a i giudici, per litigare, ancorchè ottimo diritto egli abbia per conservare i beni posseduti, o per pretenderli occupati da altri?