Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo VII

Capitolo VII

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De i giudici, e de i lor difetti.


Allorchè Jetro suocero di Mosè vide il genero così affaccendato in ascoltare e decidere le liti del numeroso suo popolo, che dalla mattina alla sera non avea riposo (Exod. Cap. XXIII) lo sgridò con dirgli, che il capo del popolo non dovea impiegar tanto tempo in quella noiosa fatica, e che riserbati a sè i più importanti affari, eleggesse de omni plebe viros potentes, et timentes Deum, in quibus sit veritas, et qui oderint avaritiam, et judicent populum omni tempore. Ecco le qualità, che le divine scritture ricercano in ogni giudice, e in ogni ministro del principe o della repubblica. Potenza cioè forza di mente per poter conoscere il diritto e il torto, il giusto e l’ingiusto: forza nondimeno, che regolarmente non può darsi, se non è congiunta col sapere, cioè colla conoscenza delle leggi, secondo le quali si dee giudicare. In vece di potentes hanno alcuni testi sapientes. Timore di Dio, per non lasciarsi mai sovvertire da odio, timore, cupidigia, o predilezione alcuna, allorchè s’ha da sentenziare del corpo, della riputazione, e della roba altrui. Amore della verità per cercarla esattamente ne’ fatti controversi, ne’ processi, e nelle allegazioni, e similmente per custodirla in suo cuore, ed esercitarla in tutte le congiunture. Disinteresse, perchè giudice interessato, giudice, a cui piacciano i regali, e che per povertà, o per avidità vorrebbe pure far fruttare il nobil suo impiego, difficile troppo è, che sappia tener le bilance diritte. Parrà a lui di tenerle, ma parrà, perchè non saprà formare un esatto esame del suo cuore, nè discernere le occulte spinte di giudicar più tosto in una, che in altra maniera. Ora non v’ha città, per meschina che sia, in cui non si truovi alcuno, anzi più di simili cristiani, onorati ed abili ministri del principe e della giustizia. Che se ne truovino talvolta anche de i diversi da questi, io ne son certo; ma non saprei dove. Ora de’ primi non oserei parlare io, se non per lodare il lor merito, esaltarne la necessità, rallegrarmi con chi ne gode. Mi sia lecito il dir qui poche parole de’ secondi.

E quanto al timor di Dio, sarebbe da desiderare, che non mai si ammettesse all’importante ufizio di giudice e di ministro, chi è privo di questo primo principio del retto operare. Non già che solamente de i Santi abbiano da sedere su i tribunali, perchè di questi scarseggia forte il mondo; e poi sono ottimi bensì i Santi a pregar Dio per noi; ma per fare i giudici e ministri di Stato non so se a molti potesse mancare l’abilità. Certo ne mancherà loro la voglia. Altro dunque per questo conto non si ricerca, se non che il giudice sia persona di buona coscienza. Guai se l’ambizione, o sia la sete degli onori e di posti sublimi, il domina: farà di tutto per andare innanzi, vilmente servirà a chi potrà innalzarlo; nè vorrà guastar la sua fortuna. Guai se vendicativo: verran de i casi, ne’ quali non saprà guardarsi dal fare in sentenziando vendetta. Guai se dissoluto: non resisterà alle raccomandazioni. Se superbo, e massimamente se pregno del suo gran sapere: riuscirà ostinato ne’ suoi sentimenti, sprezzatore degli altrui; e così discorrendo. L’uomo dabbene posto a ministrar la giustizia, ha sempre Dio davanti a gli occhi, ansioso di non disgustarlo giammai col torcere dal buon cammino per isperanza, per timore, o per altri umani riguardi, molto meno per fini peccaminosi. Fallerà forse talora in dare una sentenza, ma senza che se n’abbia a risentire la di lui coscienza, perchè non avrà ommesso di ben conoscere i meriti della causa coll’ascoltare pazientemente, e con attenzione nelle informazioni e ne’ contradittorj le ragioni delle parti, leggere il processo, e studiare i motivi, che gli persuadano, assistere il diritto più all’uno, che all’altro de’ litiganti.

Datemi poi un giudice interessato, che si senta in cuore uno stimolo continuo di far della roba. Sarà un prodigio, se non venderà gli arbitrj, fors’anche la giustizia. E peggio poi, se maneggia il criminale. Troverà dapertutto delitti, vorrà che ognun sia reo, ma non gli mancheran viscere di pietà per chi saprà fare bel giuoco con lui. Veggo lodato lo scegliere per l’amministrazion della giustizia più tosto la gente nobile, e già provveduta abbastanza di beni di fortuna, che la gente povera di sostanze. E di vero s’avrebbe regolarmente da sperar più rettitudine in chi si dee presumere, che da gl’illustri maggiori abbia ereditata l’onoratezza nell’operare, nè si truovi in bisogno di vivere colle spoglie altrui. Ma questa regola è suggetta cotanto a fallire in pratica, che io non mi attenterei a proporla. Se il povero per bisogno è spinto a rubare, anche il nobile, il ricco per avidità potrà far lo stesso mestiere. Però solamente si dee anteporre il ricco al povero, qualora amendue egualmente si truovino provveduti di timore di Dio, e senza vile interesse. Il primo allora avrà un tentatore di meno per maneggiar rettamente le bilance della giustizia. Ma non basta il disinteresse, non basta il timore di Dio. Si esige in oltre il sapere. Parla da per sè la cosa. Non a capriccio, ma secondo le leggi s’ha da giudicare della roba altrui: pure come mai si potrà sperar retto giudizio da chi non sa ben le leggi, o non ne intende il fine, e i sentimenti, e manca de’ principj legali? Si può ben tollerare, se talvolta nelle castella e ville ci abbattiamo in giudici di poca levatura, e di scarso sapere. Cime d’uomini non s’inducono ordinariamente ad esercitar l’ingegno loro in angusti teatri, e con poco provento. Sarebbe bensì una deformità insoffribile, se giudici ignoranti, e picciole teste si mirassero ne’ tribunali delle città decidere del tuo e del mio. Ora il saper legale abbraccia gran paese, cioè la conoscenza delle leggi, de’ loro espositori, e delle cause particolari, che sono infinite, agitate, difese, e decise in varj tribunali, che si leggono ne i trattati, nelle allegazioni, o sia ne’ consigli, e nelle decisioni. Questo è, dissi, un vasto paese, che non ha limiti. Per quanto sia dotto e laborioso un legista, possibile non è, ch’egli giunga a leggere quell’immensa faragine, e molto meno a ritener tutto nel magazzino della sua memoria ma allorchè vengono le occasioni, gli corre l’obbligo di maneggiar libri, e di studiar le cause a lui commesse, cioè la verità de’ fatti, e la sussistenza o insussistenza delle ragioni addotte da ambe le parti. Ma nè pur questo basta a poter giudicare rettamente. Si esige in oltre il giudizio scientifico.

Così lo chiamo io a differenza del pratico. Si truova quest’ultimo in uomini non grossolani, nè allevati nel deserto, dotati di una naturale accortezza, che hanno apprese varie massime universali d’equità e di giustizia, e sanno distinguere la verità dalla bugia, e la sincerità dalla furberia in molte azioni, che occorrono nel commerzio umano. Con questo solo valsente noi ravvisiamo persone atte a troncar molti litigj di mercatanti, di artigiani, di contadini, e della plebe. E soglionsi appunto in ogni ben regolata città deputar giudici con facoltà di decidere senza forma giudiciaria su due piedi le popolari controversie di lieve momento. Ma il giudizio scientifico consiste in una penetrazion di niente, che sa argomentare dagli universali a i particolari, e ravvisar le differenze, che passano fra l’un caso e l’altro; che può conoscere la forza delle circostanze, capaci di far mutare l’aspetto delle cose; indagare e scoprir le intenzioni degli uomini mal’ espresse ne gli scuri lor testamenti e contratti; ed è capace di ben distinguere ciò, che è ragione o sofisma, superfluo, o utile per fondare un retto giudizio. Senza di questo importantissimo fanale potrà ben taluno fare l’avvocato o il giudice, ma facile troppo sarà, che urti in iscogli; e dee palpitar il cuore a chi si fida de’ consulti de’ primi, ed aspetta sentenza dagli ultimi.

Ho conosciuto giudici, che s’erano logorato il capo in leggere libri di giurisprudenza, ed aveano sotto mano zibaldoni grossissimi di conclusioni e notandi, tutti scritti dalla loro infaticabil mano. Saran pure stati gran dottori. Certamente erano creduti tali. E al sentir poi, che sfibbiavano tanti paragrafi, tante decisioni, ed altre autorità legali, non si potea di meno di non tenerli per arche di sapere. Ma per disgrazia mancava loro il meglio, cioè quel giudizio, di cui ora parlo. Non sapevano essi trovar le ragioni e le diversità delle cose; dette anche dagli altri non entravano queste nelle ristrette lor teste. Possedevano gran copia di conclusioni, ma senza conoscere, quai calzari si dovessero applicare a i diversi piedi. L’ordinario contegno di questi tali, che raziocinar non sanno, suol essere di far gran capitale dell’autorità de i dottori, e de i tribunali, che han deciso su quelle controversie. Quanto più lunga è la fila degli autori allegati, tanto più si figurano essi d’aver trovato il sicuro fondamento di decidere. Si può egli mai dare (dicono in lor cuore) che uomini grandi, e in tanto numero, e in libri stampati, abbiano potuto convenire in quella conclusione, o decisione, senza potentissime ragioni? Così sulla fede degli altri, e non già per chiara cognizion de i motivi concludenti, arrivano essi a dar, come Dio vuole, una sentenza. Hanno eglino colto nel segno? Può essere che sì; ma potrebbe anche essere di no. Imperocchè son belle e buone le conclusioni legali; ma è necessario il discernere attentamente le circostanze, che possono essere diverse da quelle de’ casi decisi. Qui è dove non di rado inciampano i legisti dozzinali. Necessario è in oltre l’avvertire, che quelle medesime conclusioni vengono contrariate da altri autori. Chieggo io: a chi s’ha da credere, e qual parte prendere in quel caso controverso? Chi ha giudizio scientifico, s’appiglia a quello, che sembra più ben corteggiato da forti ragioni; e talvolta avverrà, che due o tre autori classici meriteran di prevalere ad una lunga filza d’altri inferiori di mente e di sapere, che spesso son copiatori di quello che altri han già detto, e forse male. La conclusione di tutto questo si è, che a giudicar rettamente, per quanto comporta la debolezza degli umani ingegni, è da desiderare una mente perspicace, che sappia penetrar nelle fibre delle cose, discernere la varietà delle medesime, e delle lor circostanze, e adattar le leggi, e le massime o conclusioni, che convengono a quel caso particolare, e non converranno forse ad un altro; ma una mente in fine, che sia atta a scandagliar nelle parole equivoche e mal concertate de’ testatori e de’ contraenti la vera e natural intenzion de’ medesimi. Ma non si figurassero menti tali di poter da se sole sciogliere i gruppi delle liti senza il sapere. S’ha da unire insieme queste due ruote; l’una senza l’altra non farà buon viaggio. Molte son le leggi fondate sull’unica volontà de’ legislatori, e a’ begl’ingegni non tocca di riformar queste leggi, nè di cavar dal loro cervello ragioni da sentenziar diversamente, perchè dove comandano i superiori, cessa la nostra speculativa, e conviene ubbidire, decidendo come han voluto i legislatori, e non come parrebbe più convenevole alle nostre gran teste. Altrimenti quei non saranno più i legislatori, ma saremo noi: il che non è da comportare. Si suol anche talvolta osservar de i giudici, che si chiamano cocciuti, cioè ostinati nel primo interno giudizio, da essi fermato nella proposta controversia. Può bene sfiatarsi un dotto e prode avvocato per produrre ragioni, capaci di far loro mutar opinione: non la muteran certo. Più testa, più intelligenza si credono essi di possedere, che quanti avvocati possa mai produrre il Foro; e se mutassero parere, sentirebbero bisbigliare la lor superbia con rinfacciar loro d’essersi ingannati. E pure ognun de’ giudici è tenuto a sapere, che la docilità è virtù essenziale de’ giudici, nè si ha mai da risolvere, prima d’aver ben intese e scandagliate tutte le ragioni delle parti, nè mai da aderire sì fermamente ad un’opinione, che non si sia pronto a mutarla per ragioni più vigorose, che sopragiungano.