Dei difetti della giurisprudenza/Capitolo V

Capitolo V

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Capitolo IV Capitolo VI
Delle leggi romane, e de’ loro interpreti.


Niuno v’ha fra i legisti, tinti alquanto dell’antica erudizione, che non sappia, che la raccolta delle leggi romane, comprese ne’ Digesti, nelle Autentiche, nel Codice, e nell’Istituta, fu pubblicata da Giustiniano Imperadore nel secolo VI dell’era cristiana. Cacciò egli dipoi dall’Italia i Goti, e recuperò questo nobilissimo regno: laonde non v’ha dubbio, che ad osservar le sue leggi dovettero essere obbligati i popoli italiani d’allora. Ma pochi anni dopo la sua morte sotto il successore Giustino eccoti i Longobardi nell’anno 568 calare in Italia, e a poco a poco soggiogarne la maggior parte, di modo che a riserva dell’esarcato di Ravenna, del ducato romano, delle isole di Venezia, del ducato di Napoli, e di varie altre città marittime di quelle parti, che si conservarono sotto gl’imperadori greci, tutto il rimanente d’Italia venne in potere de i Longobardi. Costoro non volevano leggi romane, perchè leggi di gente nemica. Varj di quei Re andarono poi formando il corpo delle leggi longobardiche, ed altre ve ne aggiunsero i Re franchi. Seguitarono poi a regnar ne’ tribunali d’Italia queste Leggi, finattantochè verso il fine del secolo XI, o pure sul principio del XII, risuscitò e s’introdusse in Bologna, e si diramò appresso nell’altre città lo studio delle leggi di Giustiniano con tal successo, che le longobardiche insensibilmente vennero meno, e andarono in disuso. Cadono qui in varj errori alcuni legisti, non assai versati nell’erudizione de’ secoli barbari. Primieramente si figurano, che l’inondazione e signoria de’ Longobardi, seguitata da quella de i Re Franchi, o poi da quella de gli augusti Tedeschi, togliesse di mezzo ed abolisse l’uso delle leggi romane in Italia. Ma è certissimo, che ne’ paesi sopra enunziati, che continuarono ad ubbidire a gl’Imperadori greci, finchè furono padroni di Roma, e poi sotto i Franchi e Tedeschi, si mantennero le leggi romane. Anzi ne’ paesi ancora spettanti al regno longobardico era lecito o per cagion della nazione romana, ovvero per elezione, a chiunque voleva il vivere colle leggi medesime di Giustiniano; e soleasi ciò spezialmente praticare da gli ecclesiastici; ed oltre a i giudici longobardi, sempre v’erano de’ giudici romani, cioè conoscenti delle leggi romane. Però non è vero, che ne’ secoli barbarici scadessero affatto in Italia le leggi suddette; e nè pure in Francia ed Ispagna, ove si conservò un’immensa copia di persone di nazion romana. Quel solamente, che si può osservare, sembra, che i giudici romani si regolassero la maggior parte con qualche breve trasunto e compendio delle lor leggi, e al più col solo Codice, o coll’Istituta. Il che dico io, perchè fra tanti antichi manuscritti (a riserva delle Pandette già pisane, ed ora fiorentine) quasi niun altro ne resta, che abbracci il corpo legale di Giustiniano. Prima della stampa e dell’uso della carta nostrana troppo costava un grosso libro scritto a penna.

Secondariamente manca buon fondamento all’opinion di coloro, che credono ravvivato lo studio delle leggi romane, dappoichè i Pisani nell’ anno 1135, asportarono da Amalfi il suddetto prezioso manuscritto delle Pandette, o sia de’ Digesti. Prima s’ erano scoperti, e si spiegavano da Irnerio in Bologna questi libri. Anzi nè pure è certo, che le Pandette pisane venissero da Amalfi, contuttochè tal tradizione sia molto antica, perchè se ne parla nel secolo XIV. Terzo non sussiste, che le leggi longobardiche fossero abolite da Lottario II imperadore circa l’anno 1136, nè che alcuno degl’imperadori in que’ tempi autenticasse con espressa legge le leggi romane. Perchè s’introdussero le scuole del gius romano, certamente più nobile ed eccellente, che il longobardico, salico, e bavarico, usati una volta nello stesso tempo in Italia: cominciò dalle scuole a passar ne’ tribunali esso gius romano; e questo si tirò dietro a poco a poco il disuso dell’altre leggi barbariche. Sostentano in oltre gli eruditi, che niuno de’ popoli italiani, allorchè risorsero le leggi di Giustiniano, era obbligato a seguitarle, e ad essere sottomesso alle medesime. E in ciò dicono il vero. Perchè cessò nel secolo VI, sulla maggior parte d’Italia il dominio de gl’imperadori greci, e nel secolo VIII, venne meno anche in Roma e nell’esarcato: per conseguente l’osservar le leggi pubblicate da essi, fu da lì innanzi in arbitrio de’ popoli, che per consuetudine, e non già a titolo di ubbidienza seguitarono a valersi di quelle, ovvero per loro spontanea elezione le richiamarono dopo tanti anni ne’ lor tribunali.

Trovandosi dunque in questa libertà le città d’Italia, e volendo in oltre siccome città libere godere l’antichissimo privilegio di avere le lor leggi municipali, cominciò cadauna a formar le sue proprie, con allontanarsi, dovunque parve meglio a i lor savj, o alla lor volontà, dalle costituzioni di Giustiniano, e con introdurre gli uni nuovo ordine nelle successioni, gli altri ne’ contratti, nelle pene, nelle doti, e in altri simili più usuali incidenti del commerzio umano, e con aggiugnere varie altre regole non contenute nel corpo delle antiche leggi. Statuti noi chiamiamo queste loro leggi municipali, alla maggior parte de’ quali fu data per lo più perfezione ne’ secoli XV e XVI, e una forza superiore a quelle delle leggi di Giustiniano. E intanto queste han luogo e vigore ne i tribunali, in quanto o la consuetudine porta, che ne’ casi, a’ quali non han provveduto gli Statuti, si ricorra a i testi civili, o pur ciò espressamente viene ordinato ne gli stessi statuti.

Ora egli è un piacere l’udire un copiosissimo coro di professori delle leggi, che a vele gonfie si stendono nelle lodi del corpo legale di Giustiniano, esaltandone l’eccellenza, la giustizia, la sottigliezza. Insigni Imperadori, e giurisconsulti di prima sfera, di gran nome, o han formato, o hanno trascelto tutte quelle leggi. Non si può abbastanza ammirarne l’equità, la giustizia, il giudizio. E ben volentieri convengo anch’io ne gli elogi e di chi fece, e di chi ordinò quelle Leggi, perché in fatti contengono egregi principj e massime di giustizia, e casi particolari con somma prudenza decisi. Ma che tal raccolta s’abbia a tenere per un capo d’opera della natura e dell’arte, non si dee già sì facilmente concedere. A buon conto se ne truova delle contrarie l’una all’altra. E gli statuti di tante città d’Italia, per lo più gente savia e ben versata nelle leggi, han fatto conoscere, qual alto concetto avessero delle fatiche di Giustiniano, col formar tante costituzioni diverse dalle sue, ed anche opposte. Nè solamente hanno ciò fatto in que’ punti, che dipendono dalla sola volontà del legislatore, il quale ha ordinato una cosa in una maniera, e poteva anche ordinarla tutto al contrario, senza offendere la giustizia; ma in altre ancora, nelle quali han creduto più giusto e più utile al pubblico il dipartirsi dalle antiche leggi. Oltre a ciò la mutazion de’ costumi e governi ha cagionato, che moltissime di quelle leggi a nulla più servono, se non ad ingrossare inutilmente i grossi tomi del corpo giustinianeo. Più non abbiamo que’ magistrati ed uffiziali, de’ quali è ivi in tante leggi parlato. Più non s’ode parola fra noi de’ servi, delle manumissioni, de’ liberti, de’ libertini, de’ censiti, de’ coloni, e d’altre spezie di agricoltori, nè de’ veterani e d’altri usi della Milizia di que’ tempi, che pure occupano gran quantità di leggi in esso corpo. La patria podestà non è più nel rigore d’allora. Il gius canonico poi ha corretto, ha annullato non poche delle medesime leggi; e così discorrendo: di modo che gioverebbe il togliere tante superfluità, ed inutili materie da que’ tomi, che spaventano alcuni lettori, nè si giungono mai a leggere, o a leggere interamente da i più de’ nostri dottori. E delle novelle ed autentiche poi che diremo? Non mancano saggi, che trovandone molte contrarie a quanto era stato prescritto ne gli antecedenti libri, e talvolta sustituito il men giusto, o pur l’ingiusto al giusto, e massimamente in favore del debile sesso, non la perdonano allo stesso Giustiniano. E questo oltre a tant’altre osservazioni intorno al pensare de gli uomini, ci porge motivo di dire, che la giustizia dee ben essere una difficil cosa da scoprire, da che oggi a noi sembra buona una legge, e domani diversamente ne giudichiamo. Quel che è certo, in esse novelle ed autentiche, più che altrove s’incontra gran copia di costituzioni, che a nulla servono al Foro d’oggidì, e si potrebbero risecare anch’esse dalla gran faragine delle leggi romane. Per l’erudizione antica, nol niego, son tutte da avere in pregio; ma noi qui cerchiamo quel che dee servir di regola a i giudici per determinar le controversie forensi, e non già per far pompa nelle Accademie erudite. E però non si vuol punto biasimare, anzi si dee lodare l’aver alcuni letterati aggiunte alle novelle di Giustiniano quelle d’altri susseguenti imperadori, o pur quelle d’antecedenti Augusti, neglette da Giustiniano, e l’avere risuscitata la bell’opera del codice teodosiano. Tutto questo, torno a dire, è un bel patrimonio d’erudizione; ma di niun’ uso nel Foro, perche ninna forza portano con seco sì fatte Novelle, ne il codice di Teodosio può costringere i giudici e la gente d’Italia a seguitarne il tenore. Ciò posto, chi ha voluto inserir queste inutili merci nel codice delle autentiche giustinianee, niun servigio ha prestato alla moderna Giurisprudenza, e solamente ha renduto più pesante e scomodo quel libro per gli dottori non eruditi, ne curanti di tali giunte.

Alle leggi poi di Giustiniano fecero le chiose i primi interpreti di quel gius risuscitato, cioè Irnerio, Martino, Bulgaro, e sopra gli altri Accursio, al nome de’ quali, siccome di arcivenerabili maestri, ognuno una volta si cavava il cappello. Convien confessarlo: sono annotazioni utili, e contenenti gran fondo di dottrina legale. Dopo le stesse leggi ne’ vecchi tempi non poca autorità si credea che competesse a tali chiose; ma sopravenendo altri dottori, che si giudicarono non punto inferiori, anzi superiori a que’ primi chiosatori, cominciarono essi a mettersele sotto i piedi, qualora non parlavano secondo la lor’ opinione, ed insegnarono ad altri il fare lo stesso. Che privilegio di grazia, dicevano costoro, competeva a que’ primi maestri sopra gli altri, che son venuti dipoi? E Martino fra gli altri non è egli forse in concetto d’essere stato un gran cacciatore di opinioni singolari? Se poi in quelle chiose s’incontrino delle contradizioni, spezialmente fra la chiosa grande e la picciola, io lascerò ad altri il cercarlo. Ben so, che Accursio, e gli autori d’esse, siccome vivuti in secoli, ne’ quali l’erudizione antica era quasi altrettanto nota, come l’Indie occidentali, spacciano talvolta puerilità ed inezie, massimamente allorchè si mettono a spiegar termini e riti, l’intelligenza de’ quali dipende da quella erudizione, che da due secoli in qua si è felicemente coltivata da insigni giurisconsulti, ma allora giaceva in un gran buio. Ne darò un breve saggio. Trattasi nella l. vel si vites ff. de impensis delle spese fatte dal marito ne’ beni dotali, e son chiamate necessarie le seguenti: « Si vites propagaverit, vel arbores curaverit, vel seminaria pro utilitate agri fecerit ». Accursio tenne, che sotto nome di seminarium venisse il granaio, dove si tiene il grano da seminare. Ma siccome osservò dopo molti altri il Gotifredo, per seminario s’intende il semenzaio, come dicono i toscani, o come diciamo noi il tavoliere, dove si seminano o piantano viti, e piccioli alberi da trapiantare. Per questa mal’ intelligenza della voce seminarium, Accursio confuse anche la l. item si fondi § seminarii ff. de usufructu, pretendendo, che l’usufruttuario sia padrone delle sementi con obbligo di rinovarle, quando il testo parla solamente de’ tavolieri. Così nella l. possideri § item feras ff. de adquiren. vel amitt. possess., dove si parla delle fiere, quas vivariis incluserimus, Accursio stimò, che col nome di vivario s’intendesse un luogo di poco spazio, diverso dalle selve cinte di muro, dove si tengono le fiere. S’ingannò, vivaio vuol dire parco cinto di mura, sia picciolo, sia grande. Le fiere ivi chiuse son nostre a differenza dell’altre, che stanno nelle selve aperte. Questo granchio fu adottato da altri giurisconsulti, contra de’ quali son da vedere il Grozio, il Pufendorfio. Assaissimi altri somiglianti esempli potrei recare di sbagli presi da Accursio, e da altri antichi nostri dottori, o per mancanza dell’erudizione antica, o per l’oscurità delle leggi stesse, o per cagione de’ testi stessi guasti da gl’ignoranti copisti: intorno a che il lettore si potrà chiarire in leggendo l’opere del famoso Cuiaccio, d’Antonio Fabro, di Dionisio Gotifredo, e d’altri, che al saper legale aggiunsero l’erudizione antica, ed han fatto conoscere, quanto impropriamente abbiano i nostri puri legisti interpretate e spiegate non poche leggi del codice e de i digesti. Ma sopra gli altri è da vedere, come il dottissimo Budeo nelle annotazioni prime alle Pandette esaminò le chiose del buon Accursio: del che parla ancora il chiarissimo giurisconsulto napoletano D. Giuseppe Aurelio di Gennaro nella sua leggiadra finzione intitolata Respublica Jurisconsultorum, dove fa ancora conoscere l’arditezza di quell’interprete in volere talvolta deridere i celebri giurisconsulti del secolo secondo e terzo, e fin lo stesso Giustiniano, in vece di dir Triboniano. Si può, è vero, rispondere, che gli abbagli presi da Accursio, e da altri non pochi interpreti delle leggi giustinianee, non hanno impedito loro l’essere uomini grandi nella giurisprudenza, quali senza dubbio convien confessare anche Azone, Bartolo, Baldo, e tanti altri; perchè questi sono errori di storia, e non già della profession legale; né Apelle lasciò d’essere un insigne pittore, ancorché un ciabattino gli mostrasse, che avea fallato nel dipignere una scarpa. Perciò questi piccoli nei di Accursio non offuscheran giammai la gloria di così memorabil interprete delle leggi; ed intanto contra chi ne ha parlato con vilipendio in questi due ultimi secoli, si han da opporre le parole del celebre Gian Vincenzo Gravina de orto et progresso juris civ., cap. 154, là dove parlando di Accursio scrive: « Quo magis mihi stomachum facessit eorum, insolentia ne dicam, an immanitas? qui, quum ejus lectione legum sensus levi labore adipiscantur, ubi tamen aliquid nubeculæ ab eo relinquitur eorum eruditione diluendum, feroces victoria statim perstrepunt, et cachinnos tollunt; nec verentur viro de illis, ac de posteritate optime merito, temporum caliginem vitio vertere; sibi vero laudi ducere nascendi sortem. Quæ autem inhumanitas est ei, qui facem prætulit in tantis tenebris juris civilis, qua sine face vel eruditissimi novorum jurisconsultorum oberrassent, vitia illa nolle condonare, in quæ decidit, non propter juris civilis scientiam, sed ob imperitiam historiarum, et latinæ proprietatis sibi ab ætate illa denegatæ; quum tamen, iis etiam præsidiis spoliatus, ingenii acie non raro collineet, ut non tam ejus errores exagitare, quam paucitatem illorum in tam crebris peccandi periculis, lubricisque locis admirari debeamus ». Il che sia detto per iscusa d’Accursio; poichè per altro sempre sarà vero, che a formare un perfetto giurisconsulto assaissimo contribuisce l’erudizione, lo studio della lingua latina, e la cognizion della storia: il che fu asserito fin dallo stesso Cardinale de Luca; e tanto più trattandosi di ben intendere il vero senso delle antiche leggi latine: nel che gli eruditi legisti de gli ultimi secoli e massimamente l’impareggiabil Cuiaccio, hanno supplita l’ignoranza de’ secoli precedenti, con darci chiose più giuste, e spiegazioni più accertate della mente degli antichi Augusti, e giurisperiti.

Ma non consiste, torno a dirlo, il sostanzial malore della scienza legale nel difetto dell’erudizione antica, perchè questa in fine è un accessorio, e può essere un bell’ornamento a questa professione, ma in sostanza anche senza d’essa può stare, che uno rettamente giudichi del giusto e dell’ingiusto, e meriti il nome d’insigne giurisconsulto. Il punto sta, che da che nel secolo XII Irnerio, e gli altri successori suoi nella scuola di Bologna si diedero a interpretar le leggi romane, tra perchè non v’era peranche obbligo di osservarle, e di rigorosamente stare al loro tenore, e perchè all’ingegno d’essi pareva, che il testo delle medesime patisse delle difficultà in molti casi: cominciarono di buon’ ora a sfoderar limitazioni ed eccezioni. Ed altri poi vennero, che vi aggiunsero nuove restrizioni, o pure ampliazioni; e chi le interpretò in una, e chi in un’altra maniera, con essere così a poco a poco giunto lo studio legale a quel gran caos di quistioni e conclusioni ambigue, perchè provvedute sì nell’affermativa, che nella negativa di ragioni e di autorità l’una all’altra contrarie, e di sentimenti per Io più affatto discordi.

Nè è da maravigliarsi, che sia sopravenuta tanta battaglia d’opinioni in questa disciplina. Naturalmente ciò è seguito, ne pota essere altrimenti, da che gl’ingegni han preso a spiegare, e ponderare ogni senso e parola, e molto più l’intenzion delle leggi, e mettere, per così dire, le leggi stesse sulle bilance della giustizia, per osservare, se applicandole ora a questo, ora a quel caso, si trovasse rettitudine, o pure asprezza, indiscretezza, ed anche ingiustizia nelle medesime. Nel che spezialmente han faticato due diverse schiere di giurisconsulti, cioè gl’Interpreti dall’un canto, e i consulenti dall’altro. Quanto a’ primi, hanno essi non so dire se più saviamente, o più liberamente, esaminato il tenor delle leggi; e trovando, o pure parendo a i loro ingegni di ritrovare, che in certi determinati casi non sarebbe giusto il comando d’una legge generale, e camminando con quella massima, che si dee badar più alla mente ed intenzion de’ legislatori, supponendoli sempre saggi e giusti, che alle loro parole, hanno deciso sovente, che in tanti e tanti casi non può aver luogo or questa, or quella legge. E ciò a cagion delle circostanze e qualità diverse delle persone, de i fatti, de’ luoghi, e de i tempi. Ed eccoti uscite assaissime limitazioni delle leggi, ricevute poi anch’esse come leggi da molti susseguenti legisti. Altri ancora in questi ultimi tempi han voluto correggere i testi ed interpretare a lor modo esse leggi. Se poi tante di queste interpretazioni meritino più tosto il nome di corruzioni, potrà chiarirsene, chi avrà sotto gli occhi un trattatello di Filippo Lietneo, che porta il seguente titolo: Defensio justinianea, hoc est demonstratio errorum huius sæculi jurisconsultorum, qui sub prætensa legum interpretatione, et vere lectionis restitutione, jura cæsarea corrumpunt, mutilant, et depravant. Più, e senza alcuna moderazione, han fatto i consulenti, nobili mercatanti del loro sapere. Siccome gente disposta a patrocinare ogni causa, e a sostenere oggi una dottrina, e ad impugnarla poi domani secondo l’esigenza de’ lor clienti, sono andati inventando e cavando dalle miniere feconde de’ loro ingegni mille distinzioni, e infinite restrizioni per eludere la forza delle leggi loro opposte, per dimostrarle non applicabili a i punti caduti sotto la lor penna, e talvolta ancora prive di giustizia. Hanno in oltre stirate ed ampliate le medesime a misura de’ lor bisogni. Curiosa cosa è poi il vedere, come in una causa vogliono far valere questo loro assioma: Ubi lex non distinguit, neque nos distinguere debemus, senza accorgersi, che in tant’altre lo rigettano come assioma ridicolo, scioccamente ricavato della l. non distinguemus ff. de recep. arbitr. che nulla dice di questo. E poi non vanno essi limitando cotidianamente tante leggi? Ma che altro è mai la limitazione, se non un distinguere i casi, ne’ quali si crede che la legge non obblighi, da gli altri, ne’ quali si tiene per obbligatoria? Nè si può già negare il diritto di limitar quelle leggi proposte senza eccezione alcuna con generali parole, dalle quali può risultar l’ingiustizia, volendo prenderle in tutto il loro rigore. Veggasi per esempio, la l. 19 sub prætextu C. de transactionibus. In essa gl’imperadori Diocleziano e Massimiano formano questo editto: « Sub prætextu instrumenti postea reperti transactionem bona fide finitam rescindi, jura non permittunt ». Sarà giusta in qualche caso una sì fatta legge. Ma non sarebbe difficile il provar colle ragioni del lume naturale, e col confronto d’altre leggi, non approvanti gli errori involontarj, e concedenti la restituzione in integrum, che questa è una legge priva di giustizia. Veggansi varie leggi nel codice tit. de juris et facti e spezialmente la 4a. Ivi abbiamo: « Si post divisionem factam testamenti vitium in lucem emerserit, ex iis, quæ per ignorantiam confecta sunt, præjudicium tibi non comparabitur ». Se mossa lite fra un creditore e un debitore, si viene ad una transazione con buona fede; e dopo ciò salta fuori, non dirò uno strumento, ma una sola vera ricevuta, che il creditore era già stato pagato e soddisfatto: in qual tribunale giammai ha d’andare colla testa rotta il preteso debitore, che tale non era, e ciò per cagion solamente di una transazione, e di un error tanto scusabile? Ancorchè per sentenza del giudice costui avesse dovuto pagare, scoprendosi poi la verità del già fatto pagamento, i principi vi porgeran rimedio, senza badare alla l. sub specie C. de re judicata, che è infetta del medesimo vizio, ed assisteranno alla di lui indennità: perchè non dovrà essere lo stesso, anche data la transazione? Chi fa errore non resta mai obbligato per qualunque atto ch’ei faccia, nè il creditore già soddisfatto può tuta conscientia pretendere d’essere un’altra volta pagato, benchè in minor somma. Altro è poi, che uno voglia impugnar la transazione legittimamente fatta col titolo di lesione, perchè in tal caso alcuni gli niegano l’udienza; ed altri ci sono, che volendo pur sostenere si fatte transazioni, e la legge stessa, distinguono. O la lesione, che quindi proviene, è leggiere: allora non si può impugnar la transazione. O pure è enorme, ed enormissima: ed allora essa va per terra. Veggasi nella stessa maniera la legge I, ff. de his quibus ut indignis hereditates auferuntur, in cui è ordinato, che perdano l’eredità quegli eredi, quos necem testatoris inultam omisisse constiterit. Quella fu legge d’Imperadori pagani. Non dovea un Augusto cristiano, o per meglio dire il suo gran Triboniano, conoscente delle sacrosante leggi del Vangelo, condur questa a mercato. Non poche altre simili si truovano, che meritano processo: il che fra l’altre ragioni diede motivo a Filippo Burcardo giurisconsulto tedesco di formare un trattato De hodiernæ jurisprudentiæ nœvis et remediis. Il che sia detto non già per iscreditare l’insigne corpo delle leggi di Giustiniano, perché non si può senza ingratitudine ed ingiustizia negare, ch’esso non contenga un tesoro amplissimo ed incomparabile di lumi e precetti per conoscere e praticar quel che è giusto, e fuggire l’ingiusto; ma solamente per far intendere, che contenendo esso non poche superfluità, ripugnanze, e decreti ora riprovati, sarebbe capace, fors’anche bisognoso, di riforma, acciocchè meglio servisse alla giurisprudenza de’ nostri tempi.

Convien dunque ripetere, che in moltissimi casi a cagion delle circostanze può essere assai giusto il dipartirsi dal rigor delle leggi, e dal loro troppo general comando o divieto. Ma insieme è verissimo, essere un abuso ed eccesso insoffribile l’avere riempiuta la legge di tante eccezioni, restrizioni, ed ampliazioni, per sottigliezza spezialmente de’ consulenti, impugnanti l’un l’altro, che si è ridotta la facoltà legale ad un bosco di discordie e di contradizioni, senza che si sappia in infiniti casi dove fondare il piede; e con essersi perciò introdotte tante cautele, che han servito al Cepolla, e ad altri, per formar più volumi, ma pur non bastano ad assicurar dalle liti tanti contratti ed ultime volontà. Vien dallo stesso Cardinal de Luca, benchè gran panegirista della scienza legale, riconosciuto questo caos nel Conflict. legis et rationis, lib. I, c. 8, dove scrive: «Adeo ista legalis facultas, ob tantam opinionum, et legum particularium, ac stylorum varietatem involuta, incertaque reddita est, ut vix peritissimis provectisques professoribus diu in foro versatis, prompta et facilis hæc notitia detur ». E nè pur loro questo è possibile, s’egli avesse voluto confessarla tutta. E questo male dopo tanto studio de’ giurisconsulti, in vece di alleggerirsi, va ogni dì più crescendo. Chi nol vede, che questo è un grave disordine nella Repubblica? e vedendolo, chi non ne dee desiderare il rimedio, se pur questo è possibile? Quanto poscia alle decisioni, queste senza fallo meritano più stima e riverenza, che i consigli, e le allegazioni de i Consulenti, benchè d’ordinario si vegga nelle scritture legali fatto un fascio alla rinfusa di tutti, e benchè in gran riputazione si trovassero una volta i consigli di Baldo e del Ruino. Ma ancor qui convien badare ad alcune distinzioni e riguardi. Quelle decisioni, che vengono da un solo giudice, poco o nulla s’han da credere differenti da i consulti di un avvocato. Più stima di gran lunga meritano quelle, che escono da un corpo di varj giudici, e tanto più se giudici di tribunali eccelsi, come è la ruota romana, e i senati delle più cospicue città. Ma ancor qui si dee scoprire un errore od abuso. Non tutte le decisioni della ruota romana sono il conchiuso veramente in quelle cause. Noi non di rado leggiamo ciò, che ha deciso un turno o sia una parte d’essa ruota; ma non sappiamo, qual sentenza abbia profferito un altro turno: perchè nel corpo delle recenziori, e molto meno in quelle de’ particolari Auditori, non si leggono tutte l’altre decisioni emanate nella medesima causa. E d’esse ve ne son molte o rivocate dalla stessa Ruota, e contro le quali la ruota stessa decise; e non ne mancano delle deboli, fondate sopra motivi insussistenti: perchè non tutti i tirsigeri sono bacchi: oltre al trovarsi anche la discordia ne’ decreti di quel per altro sì accreditato e venerabil tribunale, intorno al quale è da vedere quanto lasciò scritto il Cardinale de Luca in commendazione d’esso, ma non destramente toccare anche i suoi difetti. E però quasi nulla v’ha oramai nel Foro, che non sia o per un verso o per l’altro ridotto a disputa ed opinione, ed essere i giudizi incerti in questo mare fluttuante della giustizia del mondo, che ognun si figura d’insegnare o di sostenere, ma con torcerle il naso di cera, secondoché porta il bisogno, e con figurarsi, quello essere i giusto, che a noi sembra tale, mentre ad altrui nelle( stesso tempo par giusto il contrario. Curiosa cosa è il vedere, come Cristoforo Besoldo, giurisconsulto di molta erudizione fra i Tedeschi, dissert. 11, de prœmiis et c. dopo aver molto commendata e difesa da i morsi altrui la giurisprudenza de’ nostri tempi, vien poi nel cap. VIII, § X, a deplorarne le pessime conseguenze, conchiudendo in fine con queste parole: « Sane tanta nunc ubique juris, legumque multitudo, et exinde nata confusio est, ut nullum umquam fuerit sæculum ab initio mundi, nullum aliud adhuc hodie regnum, vel respublica sit, ubi sub specie juris magis periculose erretur, ita justitia opprimatur, rerumque judicatarum executio impediatur; quam nunc fieri solet, postquam jus renatum, et quasi e cœlo delapsum esse nobis imaginamur, quam iis in locis fieri consuevit, ubi juris ratio et scientia floret magis, magisque vivida esse deprædicatur ». Se così parlano giurisconsulti di professione, e ricchi di molto sapere: ci sarà egli chi guardi di mal occhio me, mentre parlo nel medesimo tenore?1

Note

  1. « Aggiungasi il P. Giovanni Mariana della Compagnia di Gesù, di cui sono le seguenti parole, Lib. I, Cap. 2, de Rege et Regis instit.: Legum multitudinem tempus et malitia invexit tantam, ut jam non minus legibus quam vitiis laboremus. Leguleiorum stabulis repurgandis nullius Herculis vires et industria sufficiant ».