§ XX.

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§ XX.

Certezza ed infallibilità delle pene. Grazie.

Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma la infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che per essere un’utile virtù dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benchè moderato, farà sempre una maggiore impressione, che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza della impunità; perchè i mali anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza.

Alcuni liberano dalla pena di un piccolo delitto, quando la parte offesa lo perdoni: atto conforme alla beneficenza ed alla umanità, ma contrario al ben pubblico; quasi che un cittadino privato potesse egualmente togliere colla sua remissione la necessità dell’esempio, come può condonare il risarcimento dell’offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutt’i cittadini, o del sovrano. Egli non può che rinunziare alla sua porzione di diritto, ma non annullare quella degli altri.

A misura che le pene divengono più dolci, [p. 72 modifica]la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtù che è stata talvolta per un sovrano il supplimento di tutti i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione, dove le pene fossero dolci, ed il metodo di giudicare regolare e spedito. Questa verità sembrerà dura a chi vive nel disordine del sistema criminale, dove il perdono e le grazie sono necessarie in proporzione dell’assurdità delle leggi, e dell’atrocità delle condanne. Questa è la più bella prerogativa del trono; questo è il più desiderabile attributo della sovranità, e questa è la tacita disapprovazione che i benefici dispensatori della pubblica felicità danno ad un codice che con tutte le imperfezioni ha in suo favore il pregiudizio de’ secoli, il voluminoso ed imponente corredo d’infiniti commentatori, il grave apparato delle eterne formalità, e l’adesione de’ più insinuanti e meno temuti semidotti. Ma si consideri che la clemenza è la virtù del legislatore, e non dell’esecutore delle leggi; che deve risplendere nel codice, non già nei giudizi particolari; che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti, o che la pena non ne è la necessaria conseguenza, è un fomentare la lusinga dell’impunità, è un far credere, che potendosi perdonare, le condanne non perdonate sieno piuttosto violenze della forza, che emanazioni della giustizia. Che dirassi poi quando il principe dona le grazie, cioè la pubblica sicurezza ad un particolare, e [p. 73 modifica]che un atto privato di non illuminata beneficenza forma un pubblico decreto d’impunità? Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse ne’ casi particolari; ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore: saggio architetto, faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno, e non sarà costretto con leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben pubblico dal bene de’ particolari, e ad alzare il simulacro della salute pubblica sul timore e sulla diffidenza: profondo e sensibile filosofo, lasci che gli uomini, che i suoi fratelli godano in pace quella piccola porzione di felicità, che l’immenso sistema stabilito dalla prima Cagione, da quello CHE È, fa loro godere in quest’angolo dell’universo.