Daniele Cortis/Capitolo tredicesimo
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CAPITOLO XIII.
Vertigine.
Alle nove e un quarto gli amici fumavano e chiacchieravano intorno a Cortis, che andava dall’uno all’altro, acceso in volto, con gli occhi scintillanti, parlando, scherzando, come se Elena, suo marito, la signora Cortis non fossero esistiti mai, se tante angustie si fossero dileguate dal suo cuore per sempre. V’erano dei giovani deputati in cravatta bianca, disposti a fare lì un po’ di politica e a riderne più tardi in qualche veglia elegante; v’eran dei senatori serii e un po’ a disagio nella compagnia di quei primi; v’era un paio di giovani ancora più serii che tornavano dall’aver studiato scienze sociali in Germania; v’eran due o tre poderosi signori dell’alta Italia che aiutavan di borsa, largamente, a fondare il giornale. Cortis aperse la seduta annunziando che tutto poteva considerarsi pronto per la pubblicazione di questo. Si aveva un capitale sottoscritto di 450,000 lire; la tipografia era pronta, locale, macchine e persone; pronta la redazione e i principali corrispondenti esteri; gl’italiani si troverebbero subito. Cortis prometteva l’assidua opera propria, almeno sino all’apertura della Camera nuova. Ora occorreva intendersi sul miglior momento d’uscire. Cortis era risoluto, come gli amici sapevano, di pigliar occasione da una protesta dei suoi elettori per pronunciare un discorso l’indomani, ultima seduta avanti le vacanze pasquali, e dimettersi. Avrebbe esposta molto esplicitamente la sua fede politica, appellandosi dagli elettori attuali ai futuri. Poichè egli avrebbe in seguito diretto il giornale, si credeva in dovere di comunicare agli amici le idee che intendeva svolgere alla Camera, benchè certo non potessero riuscir nuove ad alcuno di essi. Se piacessero, se il discorso trovasse qualche eco nel paese, diventerebbe forse opportuno annunciare al pubblico il nuovo giornale come sorto da questo impulso, e uscire con esso nè così tardi che il discorso fosse dimenticato, nè così presto che la connessione dei due fatti apparisse premeditata.
Ciò posto, Cortis incominciò a esporre brevemente quello che si proponeva dire, con maggior diffusione, alla Camera. Egli parlava in piedi, con le spalle alla scrivania cui appoggiava la persona e puntava le mani, fissando or l’uno ora l’altro di coloro che lo ascoltavano, quale seduto contegnosamente, quale sdraiato sul canapè, quale ritto nel vano d’una finestra, fumando.
«L’ordine e la forma non importano» diss’egli. «La sostanza sarà questa.
L’onorevole deputato che fumava alla finestra, venne a piantarglisi di fronte, a cavalcioni d’una sedia.
«Degli elettori» proseguì Cortis «protestano contro di me perchè ho espresso alla Camera delle opinioni clericali. Io nego che questi signori conoscano il colore delle opinioni, e ho fondati dubbi che ignorino il senso delle parole; pure intendo credere e rassegnare le mie dimissioni da deputato con qualche commento.
«L’amico» disse qualcuno «non ti lascerà parlare.
«Perchè? In ogni caso deciderà la Camera. Quanto a censure e richiami è quello che desidero. Dirò dunque che sebbene io sia grato ai miei colleghi per le prove di considerazione avutene, sento attualmente nella Camera un’aria così viziata da poterne uscire senza dolore. E qui, se mi lasciano continuare, dirò che coloro i quali credono vicina la scomparsa, non dei vecchi partiti, ma addirittura del regime parlamentare, possono venir qua a fiutare il puzzo della sua corruzione. Soggiungerò che uscendo dalla Camera ne darò le notizie, molto forte e su tutti i toni, ai nuovi elettori, e non andrò sicuramente a predicare la trasformazione dei caratteri e delle opinioni per costituire una maggioranza molto estesa e poco vitale. Ho udito parlare più volte nella Camera di un partito nuovo che tutti desiderano e cui nessuno vuole appartenere; io mi compiacerò di far sapere a’ miei colleghi che mi sacrifico al pubblico bene ed esco appunto per andare in traccia d’un partito nuovo e ritornare, se sarà possibile, con esso.
«Hm! Hm!» fecero alcuni scettici.
«Signori» esclamò Cortis, «se non avete fede, perchè vi mettete all’impresa?
«Avanti, avanti!» dissero quegli stessi scettici.
«Sarò meno baldanzoso» proseguì Cortis. «Studierò le espressioni. Sapete, è un discorso che sarà probabilmente molto interrotto e perciò dovrò fare a dritta e a sinistra molte scappate che ora non posso prevedere, ma l’importante è qui, questo nuovo partito. Io lascerò dunque la Camera augurando che vi entrino presto degli uomini sciolti dalle superstizioni e dalle ignoranze di un certo individualismo liberale che si crede alla testa dell’umanità, e non si accorge di passare alla coda; non si accorge di aver lavorato utilmente, sì, a distruggere tante cose, ma di aver lavorato non per sè, sibbene per uno molto più forte, molto più potente, che ora, trovando le vie sgombere, arriva e se lo piglia lui il mondo e lascerà forse a simili liberali qualche prato d’Arcadia e poche pecore. Questi uomini penetrati dal futuro, questa gente positiva, verrà alla Camera, convinta, a differenza di altri retori e mitologi, che nel lungo lavoro di rinnovamento sociale cui le forme moderne della produzione impongono, il migliore strumento sarà una monarchia forte, sciolta da qualunque legame con qualunque chiesa, ma profondamente rispettosa del sentimento religioso. Questi uomini saranno ispirati dal più ardente patriottismo e non faranno mai, per un solo palmo non nostro di terra italiana, dichiarazioni nè abili, nè oneste.
«Ecco» proseguì Cortis, dopo un momento di silenzio, «io svolgerò, presso a poco, questi concetti. Adesso voialtri dovete dirmi francamente la vostra opinione.
Nessuno parlò. Cortis andò a buttarsi sul canapè, si mise a guardare il soffitto, aspettando.
«Ardito» sussurrò il senatore C... «Un discorso molto ardito.
«Questo si sa» esclamò Cortis con un gesto di noncuranza. «Tanto ardito che forse non lo potrò fare.
Quel deputato che stava a cavalcioni della sedia, si scosse a un tratto, picchiò forte col pugno sulla spalliera.
«Non guardo questo, io» diss’egli, alzandosi. «Non guardo l’arditezza della forma, guardo l’arditezza delle idee.
Soggiunse che, giudicando da una esposizione così concisa, le idee gli parevano più radicali di quelle nelle quali tutti i presenti si erano accordati nel trattare per la fondazione del giornale. Si era parlato, sì, e molto, di riforme sociali; ma questo era un mettere avanti troppo apertamente il socialismo di stato con pericolo di spaventare il pubblico. Adesso non voleva discutere il principio, ma certo in Italia gli mancava la conveniente preparazione, certo non era abbastanza divulgato per chiamar gente intorno a una bandiera nuova. L’onorevole deputato non approvava poi che si parlasse con dispregio della trasformazione vagheggiata da tanti nella Camera e fuori. Si poteva essere scettici su questo punto, ma non conveniva mai, in politica, offendere alcuno senza necessità.
Un giovine siciliano, reduce da Berlino, fervido fautore del socialismo cristiano, prese focosamente le parti di Cortis; disse che altro era un programma di governo, altro un programma di partito. Il riserbo e le cautele vengono col potere. Quando s’intende creare un movimento dal di sotto all’insù, ci vuole franchezza e ardimento. Chi non parla di riforme sociali? Bisogna anche dire come deve farsi questo grande lavoro: con la monarchia forte, il Reich; con l’associazione, con il sentimento religioso.
L’onorevole deputato replicò; altri intervennero nella discussione, appoggiando il consiglio più prudente. Cortis fremeva, si agitava sul canapè, volendo tacere, lasciar liberi i suoi amici di deliberare a lor posta; ma non fu padrone, quella sera, de’ suoi nervi malati, e ruppe a un tratto in una sfuriata contro i timidi e gl’incerti, investì i suoi contradditori con tale amara veemenza, da muoverli a stupore più che a risentimento. Quand’egli ebbe finito nessuno aperse la bocca per un pezzo: tutti si guardavano attoniti. Finalmente il senatore T... prese la parola e la tenne a lungo, navigando con gran precauzione, ammirando l’ardimento degli uni, lodando la prudenza degli altri, compiacendosi di una discussione onorevolissima per tutti, anche se l’ardore delle convinzioni, il desiderio del pubblico bene, avean potuto qualche volta esprimersi con vivacità straordinaria. Dopo aver lodato tutti, l’onorevole senatore, volendo rimendare gli strappi, dovea pure passar l’ago a destra e a sinistra, pungere un poco chi aveva parlato più forte. Appariva, secondo lui, dalla discussione, un disaccordo piuttosto apparente che reale, un dissenso sull’attuale opportunità delle cose dette dall’onorevole Cortis, anzichè sul loro valore intrinseco; benchè egli stesso, se proprio proprio costretto a pronunciarsi su quell’ordine di idee, avrebbe dovuto pur fare qualche riserva, come su alquanti altri giudizi che aveva uditi nella discussione.
Ciò posto, non pareva difficile all’onorevole senatore che tutti avessero a intendersi nei seguenti termini. L’onorevole Cortis parlasse pure a modo suo, ma senza nessun impegno, da parte del giornale, di prendere il suo discorso per programma. Parlasse pure audace, audacissimo. In pochi mesi di vita parlamentare l’onorevole Cortis aveva già saputo distinguersi, conciliarsi molto rispetto, molta simpatia; il suo discorso, se gli riusciva di condurlo a fine, avrebbe sicuramente levato rumore nella Camera e fuori, avrebbe dato modo di studiare gli umori, le disposizioni del pubblico, di prendere posto, col giornale, un po’ più indietro o un po’ più avanti, sul terreno migliore.
Cortis fece un atto di acquiescenza muta, sdegnosa; gli altri, chi prima, chi dopo, chi ad alta, chi a bassa voce, approvarono. Non v’era più niente a dire. Le cravatte bianche uscirono subito; ultimo uscì anche Cortis. Prese a braccetto il senatore che aveva parlato, uomo di grande ingegno, dottrina e virtù, lo trasse con sè verso via dell’Aracœli, a forza, perchè colui voleva piegare verso il Collegio Romano.
«Se mi credevate matto» disse Cortis, nervoso, «dovevate farmelo sapere prima.
L’altro protestò, ma Cortis non parve nemmeno ascoltarlo, gli dichiarò che avrebbe mandato a monte società, giornale e tutto, che si sarebbe ritirato davvero dalla vita politica. Il senatore si provò di ammansarlo, di persuaderlo che avendo richiesto gli amici di consiglio non doveva poi offendersi se il consiglio era dato liberamente. Cortis negava di aver chiesto consigli ad alcuno; tenendosi legato a quella gente, non aveva voluto muovere un passo senza dirlo, ma si era tenuto sicurissimo di una piena approvazione. Non erano le solite idee discusse tante volte sin da quando s’era stabilito di fare il giornale? No, no, Cortis lo sapeva bene, si aveva gelosia di lui, si aveva paura di creargli troppa influenza, troppa autorità. Il senatore no, ma gli altri sì; gli altri erano invidiosi, nemici occulti. Non li aveva visti il senatore? Non li aveva uditi?
I radi viandanti si voltavano a guardar quest’uomo alto e smilzo che parlava con tanta foga, con voce vibrante di tanta emozione a quell’altro grosso e piccino, tutto mansueto nel suo soprabitone all’antica. Questi cercava fermarsi sotto i fanali, a guardar l’orologio, ma Cortis non gliel consentiva, gli stringeva più forte il braccio, lo trascinava seco per isghembo, come un ragazzo riluttante. Solo alla salita del Campidoglio il buon senatore si piantò su’ due piedi risoluto a non lasciarsi trarre più avanti.
«Caro Lei, mi faccia il piacere!» diss’egli. «Dove va?
«Ho bisogno di camminare, di stancarmi» rispose Cortis. «Non m’ha detto Lei che va qualche volta, la sera, al Colosseo?
«Grazie tante! Alle otto! Per amor del cielo! Alle otto. Son le dieci e mezzo, sa. A quest’ora sono sempre a letto.
«Perchè desideravo stare un po’ con Lei. C’è poca gente ch’io stimi quanto Lei.
«Grazie» rispose il senatore con un sorriso modesto e una voce cascante. «Riverisco» soggiunse facendosi piccin piccino quasi per sfuggir meglio al suo terribile interlocutore. Cortis gli strinse la mano e lo lasciò senza dir parola.
Camminava rapidamente, vedendo la Camera, i vicini intenti a lui, intento il presidente; e in faccia a sè, sotto la tribuna di sinistra, l’orologio muto che veniva segnando, momento a momento, il passar di parole irrevocabili, il passar di un’ora fra le più solenni, fra le più gravi della vita di chi parlava. Talvolta la figura, lo sguardo d’Elena gli fugavano ogni altra visione; ma poi quell’aula scura, quei volti oscuri e marmorei, quel quadrante, quell’inesorabile lancetta tornavano. E si udiva parlare, udiva il cicaleccio indifferente dei colleghi, poi le interruzioni, i richiami, le ingiurie. Le sentiva veramente come schiaffi sul viso; un fiume di collera gli veniva alla bocca; egli rispondeva a destra e a sinistra con l’invettiva e il sarcasmo, solo contro tutti.
Parole, attitudini, gli tempestavano nella fantasia con rapidità crescente. E camminava camminava, con i denti serrati, con le pugna strette, quando in piazza de’ Fenili traballò preso da un capogiro, dovette aggrapparsi al parapetto verso il Foro, aspettare, ansando, che passasse. Quando le imminenti colonne spettrali di Castore e Polluce ristettero di girargli attorno con gli altri grandi cadaveri del Foro, tutti grigi di luna velata, rimase a guardare, quasi inconsapevole, i tre fusti potenti, il colossale mozzicone d’architrave fermo sotto i nuvoloni bianchi che veleggiavano all’Esquilino.
La pace dei secoli morti gli entrò a poco a poco nel cuore. Riprese quindi adagio il suo cammino pensando, attonito, a questa cosa nuova, a questo girar vertiginoso della vista, cui neppure una volontà gagliarda come la sua poteva arrestare. Calma, calma, ci voleva; anche per l’indomani. Non immaginò più niente, non ascoltò che il proprio passo nella solitudine.
A un tratto si trovò sul viso il Colosseo enorme, nero fino alle nuvole. I piccoli fanali non rompean l’ombre a due passi. S’intravvedeva appena, in fondo all’entrata, l’arena chiara. Cortis si cacciò in quel buio, avidamente, parendogli uscir dal tempo in un’aria eterna, a riposare. La luna pendeva sul Celio, imbiancando in alto, a sinistra di Cortis, le gigantesche vertebre nude dell’anfiteatro. Non si vedeva anima viva. Solo un lumicino attraverso le arcate dell’entrata opposta, verso San Clemente; solo di tempo in tempo un sordo rumor di ruote dava debole segno della vita lontana.
Cortis si appoggiò a un rudere del podio imperiale, nell’ombra. Il silenzio desolato, le immense rovine cineree e nere gli davan l’idea di un cratere spento della luna, fra quelle montagne morte, al crepuscolo. E tornavano, con questo triste sogno, il viso, la voce d’Elena. Era ella dunque in un altro pianeta? Proprio in eterno non sarebbe stata sua? Il cuore si mise a battere, a battere. Si strinse con le mani il petto, temendo uno sfacelo di sè. Dio, Dio, cos’era questa prostrazione dello spirito, cos’era quest’onda che gli veniva su su su alla gola, al viso, così dolce, così amara, così forte? Lui, Cortis, piangere? Si voltò alla pietra antica, vi affisse la fronte.
Pochi minuti dopo uno sciame di gente sbucò nell’arena, si fermò all’entrata con degli:
«Oh! Beautiful! Wonderful!
Cortis andò via.