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vertigine 219


buio, avidamente, parendogli uscir dal tempo in un’aria eterna, a riposare. La luna pendeva sul Celio, imbiancando in alto, a sinistra di Cortis, le gigantesche vertebre nude dell’anfiteatro. Non si vedeva anima viva. Solo un lumicino attraverso le arcate dell’entrata opposta, verso San Clemente; solo di tempo in tempo un sordo rumor di ruote dava debole segno della vita lontana.

Cortis si appoggiò a un rudere del podio imperiale, nell’ombra. Il silenzio desolato, le immense rovine cineree e nere gli davan l’idea di un cratere spento della luna, fra quelle montagne morte, al crepuscolo. E tornavano, con questo triste sogno, il viso, la voce d’Elena. Era ella dunque in un altro pianeta? Proprio in eterno non sarebbe stata sua? Il cuore si mise a battere, a battere. Si strinse con le mani il petto, temendo uno sfacelo di sè. Dio, Dio, cos’era questa prostrazione dello spirito, cos’era quest’onda che gli veniva su su su alla gola, al viso, così dolce, così amara, così forte? Lui, Cortis, piangere? Si voltò alla pietra antica, vi affisse la fronte.

Pochi minuti dopo uno sciame di gente sbucò nell’arena, si fermò all’entrata con degli:

«Oh! Beautiful! Wonderful!

Cortis andò via.