Dalle dita al calcolatore/VII/9
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | VII - 8 | VII - 10 | ► |
9. Il posto vuoto
Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che il concetto di zero abbia origine dal calcolo sull’abaco. In origine l’abaco è una tavoletta cosparsa di polvere finissima, o di cera, oppure niente di tutto questo: si può infatti anche operare direttamente per terra. Gli Arabi occidentali danno alle cifre un nome significativo: haruf al gubar, cioè “cifre da polvere”. La superficie dell’abaco viene divisa in colonne e ad ognuna si attribuisce un valore secondo le potenze crescenti di 10, da destra verso sinistra. Per rappresentare un numero si possono usare i sassolini, oppure tracciare sulla sabbia le cifre occorrenti, collocandole nella colonna delle unità, delle decine, ecc., secondo il loro valore di posizione. Se manca la cifra di un ordine, la colonna resta vuota. Questa situazione viene designata dagli Indiani con il termine sunya, che vuol dire “vuoto”. Si usano anche altri termini equivalenti, ma più poetici: kha (cielo), gagana (spazio), ambara (atmosfera), ecc. Quando dall’abaco si passa a scrivere il numero su “carta”, lo spazio vuoto può dare adito a confusione. Pertanto, ogni spazio vuoto viene indicato con un puntino (bindu), che gli Arabi orientali usano ancora per lo zero. In alternativa, si riproduce sul foglio la griglia dell’abaco, inserendo le cifre al posto giusto e lasciando vuote le colonne che sono tali anche sull’abaco.
Le testimonianze più antiche sull’uso dello zero e sul principio di posizione risalgono alla fine del VII secolo e sono contenute in iscrizioni rinvenute in varie parti del Sud-est asiatico: si tratta per lo più di date relative ai fatti per i quali l'iscrizione è stata redatta. Le indicazioni numeriche possono essere espresse in tre modi diversi: 1) a tutte lettere, usando il nome sanscrito dei numeri; 2) a cifre, secondo le grafie locali; 3) con il sistema degli astronomi.
Date riportate in iscrizioni dell'era Saka.
Il terzo sistema merita una breve descrizione. Per rimediare all’estrema deperibilità del materiale scrittorio, gli astronomi escogitano un artificio mnemotecnico consistente nel mettere in versi le indicazioni numeriche, al fine di ricordarle più facilmente.
Anche noi, del resto, ricorriamo a piccoli espedienti per ricordare un numero di telefono, oppure qualche numero speciale, come i valori di Pi greco oltre la seconda cifra decimale. I Francesi hanno inventato appositamente una poesia in cui il numero delle lettere contenute in ogni parola corrisponde alla successione delle cifre: “Que j’aime à faire apprendre/un nombre utile aux sages/immortel Archimède...”, cioè 3,141592653589... In Italia, invece, si recita “Ave o Roma...”.
Gli astronomi indiani operano in un modo un po’ diverso. Ad ogni numero associano delle parole che hanno il potere di evocarlo immediatamente. Per lo zero si è già visto. Il numero 1 viene associato a Terra, Luna, Forma, e ad ogni altra cosa “unica”. Il numero 2 è rievocato con termini come occhi, braccia... Il 5 trova la sua espressione nei sensi, nei 5 volti di Shiva... La mitologia, la religione, tutta la realtà, dunque, concorrono a fornire un repertorio pressoché illimitato per la versificazione.
Lo “zero” in date dell'era Saka, redatte secondo il sistema degli astronomi.
Nella “versificazione” del numero 609 si nota una incongruenza: la menzione relativa allo zero rende superflua in 600 (satsata) la specificazione sata, cioè “cento”. Può darsi che si tratti di una svista di chi ha redatto il testo, ma certo è un esempio significativo della transizione dalla vecchia numerazione a quella nuova, strettamente posizionale.
Nell’esempio tratto da Baskara è importante notare, oltre alla duplice indicazione in parole e in cifre, la dicitura che specifica “nelle nove cifre”. Ciò vuol dire che lo zero viene considerato diverso rispetto alle nove cifre significative.
Infine, a confermare l’affermazione definitiva del sistema di posizione e dell’uso dello zero, sono da nominare due iscrizioni scoperte in un tempio sacro a Visnù, nei pressi di Gwalior. La prima consiste di un brano in versi numerati da 1 a 26; la seconda contiene i dati numerici relativi a una donazione. Le due iscrizioni sono state redatte nel 932 e nel 933 dell’era Vikrama, corrispondenti agli anni 875 e 876 d.C.
I numeri secondo il sistema degli astronomi indiani.
Numeri tratti dalle iscrizioni delle "grotte" di Gwalior (875-876 d.C.). La diffusione del nuovo sistema indiano è iniziata
già due-tre secoli prima di queste date. Vi sono testimonianze
precise in proposito.
In seguito alla chiusura delle scuole filosofiche di Atene, un gruppo di studiosi greci si trasferisce in Mesopotamia e vi fonda delle scuole. Probabilmente, essi attribuiscono ogni merito ai pensatori connazionali. Ciò provoca la reazione sdegnata dell’abate Severo Seboct, matematico e astronomo. Questi ricorda loro, per iscritto, che i Greci hanno imparato l’astronomia proprio dai Caldei (Babilonesi), e che in astronomia e in matematica le scoperte più acute sono dovute agli Indiani; così accenna ai loro metodi di calcolo con “nove cifre”. È l’anno 662 d.C. Alcuni studiosi si appigliano alla menzione “nove cifre” per negare che gli Indiani conoscano già da allora l’uso dello zero. Invece si è visto che anche Baskara parla di nove cifre, pur usando abbondantemente lo zero. Anche gli autori arabi riconoscono agli Indiani il merito dell’invenzione delle cifre. In un manualetto del 1667 si parla di “diece caratteri differenti l’uno dal altro quali sono 1.2.3.4.5.6.7.8.9.0. delli quali li primi 9 sono significativi, ed decimo cioè il 0. per se niente significa” (15a). Leonardo Fibonacci, nel Liber Abbaci, parla di nove figure e dello zero. Risulta evidente il diverso modo di considerare le nove cifre e lo zero; perciò non si può sostenere che il Seboct ignori quest’ultimo: semplicemente non lo considera una cifra alla stregua delle altre.
Un’altra autorevole testimonianza circa l’antichità e la diffusione delle cifre indiane proviene dalla Cina. Se ne parla in una grande opera di astronomia pubblicata nel 718 d.C.: “Allorché l’una o l’altra delle nove cifre raggiunge la decina, viene iscritta in una colonna spostata più avanti e ogni volta che in una colonna appare uno spazio vuoto, viene messo un punto per simbolizzarlo” (4b). Un dotto israelita di origine spagnola, vissuto nel XII secolo, dopo aver compiuto un viaggio in Medio Oriente e in Italia scrive un libro sui metodi di calcolo indiano. Invece di adottare la grafia delle cifre indiane preferisce mantenere il valore numerico delle prime nove lettere del proprio alfabeto; per lo zero, aggiunge un simbolo che chiama “la ruota”.
In un testo cinese del 1355, infine, figura una moltiplicazione in colonna (esattamente come facciamo noi) in cui compare lo zero sotto forma di cerchietto, mentre le altre nove cifre mantengono la tradizionale grafia cinese.