Dal Misogallo (Alfieri, 1912)/Sonetto XXIX

Sonetto XXIX

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Sonetto XXIX.

8 gennaio 1795.

Pregio mi fo di quattro cose, e grado
Ne so non lieve1 al donator Destino,
Ch’oltre il dovere a favorirmi inchino,2
4 Fa sí che ignoto in mandria vil non vado.
Fummi, il non nascer plebe, il don men rado;3
Terzo estimo il non nascer Parigino;
Poi vien, l’avere in me spirto Latino,
8 Bench’io nato in servile immondo guado:45
Ma il don, ch’io pongo d’ogni dono in cima,
È la scintilla di Apollineo raggio,
11 Che il cor m’invade, e innalza, ed arde, e lima.
S’io di plebe, o di Gallia, o di servaggio
Figlio era sozzo, in prosa io mai, né in rima
14 Dar non potea di me niun alto saggio.


Note

  1. 1-2. Grado Ne so non lieve, ne ho gratitudine non piccola.
  2. 3. Inchino, proclive.
  3. 5. Nell’Aut. (I, 1°): «Il nascere della classe dei nobili, mi giovò... moltissimo per poter poi, senza la taccia di invidioso o di vile, dispregiare la nobiltà per se sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi, ed i vizi; ma nel tempo stesso mi giovò non poco la utile e sana influenza di essa, per non contaminare poi mai in nulla la nobiltà dell’arte ch’io professava». Ma in età piú giovanile aveva scritto «essere la nobiltà uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei piú feroci e permanenti sostegni della tirannide» (nell’opera omonima, I, 11°)
  4. 7-8. Ricorda il dantesco (Inf., XV 74 segg.):
    .... non tocchin la pianta,
    S’alcuna surge ancor dal lor letame,
    In cui riviva la sementa santa
    Di quei Roman, che si rimaser quando
    Fu fatto il nido di malizia tanta.
  5. 8. Guado deve aver qui il significato di limo, fango.