Cuore (1889)/Marzo/Il muratorino moribondo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Marzo - Sangue romagnolo | Marzo - Il conte Cavour | ► |
IL MURATORINO MORIBONDO
18, martedì
Il povero muratorino è malato grave; il maestro ci disse d’andarlo a vedere, e combinammo d’andarci insieme Garrone, Derossi ed io. Stardi pure sarebbe venuto, ma siccome il maestro ci diede per lavoro la descrizione del Monumento a Cavour, egli ci disse che doveva andar a vedere il monumento, per far la descrizione più esatta. Così per prova invitammo anche quel gonfionaccio di Nobis, che ci rispose: - No, - senz’altro. Votini pure si scusò, forse per paura di macchiarsi il vestito di calcina. Ci andammo all’uscita delle quattro. Pioveva a catinelle. Per la strada Garrone si fermò e disse con la bocca piena di pane: - Cosa si compera? - e faceva sonare due soldi nella tasca. Mettemmo due soldi ciascuno e comperammo tre arancie grosse. Salimmo alla soffitta. Davanti all’uscio Derossi si levò la medaglia e se la mise in tasca: gli domandai perché: - Non so, rispose, - per non aver l’aria... mi par più delicato entrare senza medaglia. - Picchiammo, ci aperse il padre, quell’omone che pare un gigante: aveva la faccia stravolta che pareva spaventato. - Chi siete? - domandò. - Garrone rispose: - Siamo compagni di scuola d’Antonio, che gli portiamo tre arancie. - Ah! povero Tonino, - esclamò il muratore scotendo il capo, - ho paura che non le mangerà più le vostre arancie! - e si asciugò gli occhi col rovescio della mano. Ci fece andar avanti: entrammo in una camera a tetto, dove vedemmo il “muratorino„ che dormiva in un piccolo letto di ferro: sua madre stava abbandonata sul letto col viso nelle mani, e si voltò appena a guardarci: da una parte pendevan dei pennelli, un piccone e un crivello da calcina; sui piedi del malato era distesa la giacchetta del muratore, bianca di gesso. Il povero ragazzo era smagrito, bianco bianco, col naso affilato, e respirava corto. O caro Tonino, tanto buono e allegro, piccolo compagno mio, come mi fece pena, quanto avrei dato per rivedergli fare il muso di lepre, povero muratorino! Garrone gli mise un’arancia sul cuscino, accanto al viso: l’odore lo svegliò, la pigliò subito, ma poi la lasciò andare, e guardò fisso Garrone. - Son io, - disse questi, - Garrone: mi conosci? - Egli fece un sorriso che si vide appena, e levò a stento dal letto la sua mano corta e la porse a Garrone, che la prese fra le sue e vi appoggiò sopra la guancia dicendo: - Coraggio, coraggio, muratorino; tu guarirai presto e tornerai alla scuola e il maestro ti metterà vicino a me, sei contento? - Ma il muratorino non rispose. La madre scoppiò in singhiozzi: - Oh il mio povero Tonino! il mio povero Tonino! Così bravo e buono, e Dio che ce lo vuol prendere! - Chétati! - le gridò il muratore, disperato, - chetati per amor di Dio, o perdo la testa! - Poi disse a noi affannosamente: - Andate, andate, ragazzi; grazie; andate; che volete far qui? Grazie; andatevene a casa. - Il ragazzo aveva richiuso gli occhi e pareva morto. - Ha bisogno di qualche servizio? - domandò Garrone. - No, buon figliuolo, grazie, rispose il muratore; - andatevene a casa. - E così dicendo ci spinse sul pianerottolo e richiuse l’uscio. Ma non eravamo a metà delle scale, che lo sentimmo gridare: - Garrone! Garrone! - Risalimmo in fretta tutti e tre. - Garrone! - gridò il muratore col viso mutato, - t’ha chiamato per nome, due giorni che non parlava, t’ha chiamato due volte, vuole te, vieni subito. Ah santo Iddio, se fosse un buon segno! - A rivederci, - disse Garrone a noi, - io rimango, - e si lanciò in casa col padre. Derossi aveva gli occhi pieni di lacrime. Io gli dissi: - Piangi per il muratorino? Egli ha parlato, guarirà. - Lo credo, - rispose Derossi; - ma non pensavo a lui... Pensavo com’è buono, che anima bella è Garrone!