[p. 60modifica]E poi, mi penso che direbbero così: Socrate, guarda ora se diciamo vero, che tu ci fai oltraggio facendo quello che ti disponi a fare. Perciocchè noi, dopo averti generato, nutricato e ammaestrato, e messo insieme con gli altri a parte di tutt’i beni, secondo che potevamo, t’avvisammo innanzi; e, come te, così similmente ogni Ateniese pervenuto ch’è in età d’esser cittadino e preso che ha contezza dei costumi della città e di noi leggi; t’avvisammo, che caso non ti garbiamo, noi ti diamo la licenza di tòrre teco tutta la tua roba e andartene dove ti piace: perchè nessuna di noi leggi vieta e impedisce ad alcun di voi Ateniesi ch’e’ non se ne vada in alcuna colonia, se mai è scontento di noi e della città, e non si tramuti dove che sia, portando con sè le cose sue. Dunque, se un di voi rimane in Atene dopo che veduto ha il modo come noi definiamo le liti e governiamo le altre faccende del comune, egli, diciamo, coi fatti s’è già obbligato verso noi a far quello che gli comandiamo1; e, non obbedendo, [p. 61modifica]diciamo che egli ci fa villania in tre maniere: la prima che non ubbidisce a noi che gli fummo madri; la seconda, che non ubbidisce a noi che gli fummo balie; la terza, che non ubbidisce dopo che promesso avea di ubbidire, e non cura neanche, caso che noi falliamo, di chiarircene per via di ragioni; e avendogli proposto benignamente, non già comandato con asprezza, d’osservare tutto ciò che noi ingiungiamo, e lasciato in sua balìa o di aprirci gli occhi su i nostri falli o di ubbidire, egli nè fa una cosa nè l’altra2.
Note
↑Chi rimane mentre può partire, accetta volontariamente le leggi della sua patria: sicchè, se il nascere ateniese Pagina:Critone - 061.jpg
↑Socrate era appunto vissuto così: aveva sempre cercato di aprire gli occhi ai suoi concittadini; ma ora che la sua città gli comandava di morire, egli obbediva, da docile figlio.