Capitolo XI

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Platone - Critone (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (1925)
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[p. 53 modifica]Socrate. Ora, guarda più in là un poco. Andandomene via di qua e disobbedendo al comune1, noi facciamo male ad alcuno, anzi a chi manco si converrebbe, o no? e stiamo saldi ne’ principii di giustizia, ne’ quali ci siamo messi di accordo?2

Critone. Non posso rispondere a quello che domandi tu; chè non intendo3.

Socrate. Su via, guarda la cosa da questo lato. Se stando noi su le mosse per fuggir di qua (la parola fuggire non ti piace? di’ come vuoi), ci venissero incontro le leggi e l’istesso comune personalmente4, [p. 54 modifica]e, piantandocisi in faccia, domandassero: Socrate, di’ a noi: che hai tu in mente di fare? Credi tu fare altro con cotesta impresa, se non, quanto è da te, abbatter noi e la città tutta quanta? O ti pare egli possibile che stia ritta una città e non si sottovolti, dove le sentenze dei giudici non han valore, e privati cittadini le fanno vane e calpestano?5. Che risponderemo noi a questi e altri simiglianti rimproveri? Per certo ci sarebbe a ridire molto, specialmente se uno è retore, per discolparsi dell’aver conculcato la legge, la quale vuole che le sentenze abbiano loro effetto6. O risponderemo che la città ci ha fatto oltraggio, e ch’ella non ci ha giudicati secondo ragione? Risponderemmo così, o in altra maniera?

Critone. Così, per Giove7.


Note

  1. Alla città, alla patria.
  2. Non si deve far torto ad alcuno; ora, disobbedire alle leggi patrie fuggendo quand’esse ci comandano di morire, non significa far torto alla patria, madre nostra e nutrice, quella a cui meno s’ha da far torto?
  3. Socrate ha parlato un po’ più concisamente; e Critone, al solito, non l’ha inteso.
  4. Comincia qui la famosissima prosopopea delle Leggi che si fanno incontro a Socrate e lo trattengono dalla fuga. Figurazione e discorso celeberrimi, e imitati le mille volte. Tanto noti, che spesso ci lasciamo sfuggire il sapore acutamente arcaico di questa sottomissione di Socrate alle leggi, sue «madri», sue «nutrici». Socrate è «figlio» della sua città: è vissuto nel suo grembo, non allontanandosene mai; non se ne dispiccherà ora, per campar da morte: rimarrà dove nacque, per obbedire, morendo, a quelle che l’allevarono cittadino.
  5. Nell’estrema semplicità d’un discorso immaginato perchè riesca accessibile al duro comprendonio di Critone, Socrate pone, d’istinto, il principio di filosofia politica più profondo che forse possa pensarsi. Le leggi regnano sui cittadini; ma è l’obbedienza che ricevono quella che le fa valide. Se i cittadini le lasciano inascoltate, esse cadono nel nulla. Ricevono dalle coscienze su cui imperano la forza d’imperare su di loro. La legge regna, attingendo da coloro su cui regna, a volte così duramente, il potere di regnare su di essi. La fa sovrana l’obbedienza che essa stessa impone.
  6. Ad esser oratori — noi diciamo: avvocati — ci sarebbero mille argomenti per giustificarsi d’aver disobbedito alle leggi. Ma bisognerebbe, appunto, essere avvocati, e andarli a cercare quei cavilli!
  7. Socrate ha voluto trascinare Critone a ripetere quello che apparentemente è l’argomento principe, che decisamente giustificherebbe la fuga: se la città è stata ingiusta contro Socrate, può bene Socrate cancellare, render vana quella ingiustizia fuggendo. Ma Socrate ha già dianzi condotto Critone a convenire che non si deve far mai ingiustizia, nemmeno Pagina:Critone - 055.jpg