Socrate. Ora, guarda più in là un poco. Andandomene via di qua e disobbedendo al comune1, noi facciamo male ad alcuno, anzi a chi manco si converrebbe, o no? e stiamo saldi ne’ principii di giustizia, ne’ quali ci siamo messi di accordo?2

Critone. Non posso rispondere a quello che domandi tu; chè non intendo3.

Socrate. Su via, guarda la cosa da questo lato. Se stando noi su le mosse per fuggir di qua (la parola fuggire non ti piace? di’ come vuoi), ci venissero incontro le leggi e l’istesso comune personalmente4,



  1. Alla città, alla patria.
  2. Non si deve far torto ad alcuno; ora, disobbedire alle leggi patrie fuggendo quand’esse ci comandano di morire, non significa far torto alla patria, madre nostra e nutrice, quella a cui meno s’ha da far torto?
  3. Socrate ha parlato un po’ più concisamente; e Critone, al solito, non l’ha inteso.
  4. Comincia qui la famosissima prosopopea delle Leggi che si fanno incontro a Socrate e lo trattengono dalla fuga. Figurazione e discorso celeberrimi, e imitati le mille volte. Tanto noti, che spesso ci lasciamo sfuggire il sapore acutamente arcaico di questa sottomissione di Socrate alle leggi, sue «madri», sue «nutrici». Socrate è «figlio» della sua città: è vissuto nel suo grembo, non allontanandosene mai; non se ne dispiccherà ora, per campar da morte: rimarrà dove nacque, per obbedire, morendo, a quelle che l’allevarono cittadino.