e, piantandocisi in faccia, domandassero: Socrate, di’ a noi: che hai tu in mente di fare? Credi tu fare altro con cotesta impresa, se non, quanto è da te, abbatter noi e la città tutta quanta? O ti pare egli possibile che stia ritta una città e non si sottovolti, dove le sentenze dei giudici non han valore, e privati cittadini le fanno vane e calpestano?1. Che risponderemo noi a questi e altri simiglianti rimproveri? Per certo ci sarebbe a ridire molto, specialmente se uno è retore, per discolparsi dell’aver conculcato la legge, la quale vuole che le sentenze abbiano loro effetto2. O risponderemo che la città ci ha fatto oltraggio, e ch’ella non ci ha giudicati secondo ragione? Risponderemmo così, o in altra maniera?

Critone. Così, per Giove3.



  1. Nell’estrema semplicità d’un discorso immaginato perchè riesca accessibile al duro comprendonio di Critone, Socrate pone, d’istinto, il principio di filosofia politica più profondo che forse possa pensarsi. Le leggi regnano sui cittadini; ma è l’obbedienza che ricevono quella che le fa valide. Se i cittadini le lasciano inascoltate, esse cadono nel nulla. Ricevono dalle coscienze su cui imperano la forza d’imperare su di loro. La legge regna, attingendo da coloro su cui regna, a volte così duramente, il potere di regnare su di essi. La fa sovrana l’obbedienza che essa stessa impone.
  2. Ad esser oratori — noi diciamo: avvocati — ci sarebbero mille argomenti per giustificarsi d’aver disobbedito alle leggi. Ma bisognerebbe, appunto, essere avvocati, e andarli a cercare quei cavilli!
  3. Socrate ha voluto trascinare Critone a ripetere quello che apparentemente è l’argomento principe, che decisamente giustificherebbe la fuga: se la città è stata ingiusta contro Socrate, può bene Socrate cancellare, render vana quella ingiustizia fuggendo. Ma Socrate ha già dianzi condotto Critone a convenire che non si deve far mai ingiustizia, nemmeno