Capitolo VII

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Platone - Critone (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (1925)
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[p. 41 modifica]Socrate. E in quest’altra parte era giusto il ragionamento?1. Dicevamo così noi: Un che esercita il suo corpo, forse pone mente alla lode e al biasimo e all’opinione d’ogni uomo pur che sia, o di quello solo che è medico o maestro di ginnastica?

Critone. Di quello solo.

Socrate. Dunque egli ha a temere i biasimi e desiderare le lodi di quello solo, e non di tutta la gente.

Critone. È chiaro.

Socrate. E però egli ha a esercitare il suo corpo, e ha a mangiare e bere, e fare, in somma, a modo di quello solo che è sopra ciò e se ne intende, non già a modo degli altri?

Critone. Vero.

Socrate. Bene. E disobbedendo a quello, e gli avvisi e le lodi sue dispregiando, e facendo reputazione delle lodi della gente sciocca, non ne riceverà danno?

Critone. Come no? [p. 42 modifica]Socrate. E che è questo danno? e qual parte danneggia di colui che disubbidisce?

Critone. È chiaro: il danneggiato è il corpo; perchè è desso che patisce2.

Socrate. Tu di’ bene. E così delle altre cose, per non le stare ad annoverar tutte quante. E in fatto di giusto e d’iniquo, di brutto e bello, di buono e cattivo, che è la cosa sopra la quale prendiamo consiglio, ci conviene seguitare la opinione della gente forse, ovvero di quello solo che se ne intende, se mai ci fosse, e più di quello aver paura e vergogna, che di tutti [p. 43 modifica]gli altri? di quello, al quale non dando retta guasteremo la parte di noi che prospera con la giustizia e va in fiore, ed è afflitta ed annichilata con la ingiustizia?3. O non è egli vero in nulla?

Critone. Mi par vero, a me4.


Note

  1. Il ragionamento continua: i savi son pochi, gl’ignoranti, che parlano a caso, moltissimi. Ma di questi, per quanti siano, non s’ha da far conto; e s’ha da agire come ai savi par bene.
  2. Platone riproduce il modo d’argomentare caro a Socrate, per via di paragoni. Socrate vuol dimostrare che su la questione, se ci si possa sottrarre alle leggi patrie quand’esse ci colpiscano in modo che ci sembri ingiusto, si deve seguire il ragionamento dei savi (che dice: le leggi patrie non pèrdono il loro incondizionato diritto ad essere obbedite nemmeno quando siano applicate ingiustamente), e non l’opinione del volgo (che dice: se la legge è applicata ingiustamente, a una simile ingiustizia è pur lecito sottrarsi). Per mostrar questo, Socrate muove da un paragone: nel far ginnastica, a chi bisogna dar retta, al maestro di ginnastica o agli spettatori che non conoscono l’arte? e se si fa nella maniera che più tira applausi dal pubblico, ma che è biasimata dal maestro di ginnastica, il nostro corpo, sforzato o mal curato, soffre. Parimenti, se nelle nostre azioni seguiamo le opinioni della folla invece del giudizio dei savi, è il nostro spirito che soffre. Ora — Socrate prediligeva questi paragoni — la malattia dello spirito è l’ingiustizia. Se diamo retta agl’ignoranti e non ai savi, e ci macchiamo d’ingiustizia, il nostro spirito s’ammala, s’affievolisce, si degrada. Mentre la giustizia, e, in genere, la virtù, è la sanità, la prestanza, la potenza, validità, fecondità, dello spirito. — Questo concetto tipicamente socratico non fu mai abbandonato da Platone: torna nel pieno della teoria delle virtù, e ne è il coronamento e la conclusione, nel Libro V della Repubblica.
  3. È il concetto socratico già accennato: la virtù è la potenza dello spirito; il vizio è la sua impotenza. Ed è, se ben si riflette, l’inversione, il capovolgimento preciso, del concetto sofistico, che la potenza sia virtù. Non la potenza mondana è valore morale; ma non c’è altra vera potenza che il valore morale, la giustizia. La tesi sofistica suonava: chi più può, più eccelle; Socrate la capovolge: solo chi eccelle moralmente, il giusto, può davvero: padrone, non di una città prostrata ai suoi piedi, ma di qualcosa che val meglio: padrone di sé stesso.
  4. Il risultato del discorso di Socrate finora è: diamo retta a chi s’intende di virtù, e non al volgo, se non vogliamo mandare in rovina l’anima nostra. — Il concetto e l’espressione cristiana «la salute dell’anima» erano famigliarissimi a Socrate; nè egli aveva altro interesse, se non che gli uomini salvassero l’anima loro rendendola virtuosa. Bensì Socrate mirava al valore dell’anima in sè stessa, più che al suo destino oltre la morte; questo destino era, per lui, un corollario del merito, del pregio intrinseco, dell’anima: perchè in sè virtuosa, beata dopo morte: non virtuosa in vista della beatitudine d’oltretomba, e per assicurarsela.