Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo X
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO DECIMO
Colombo nel Tago resisto coraggiosamente alle ingiunzioni dell’Ammiraglio Portoghese. — Il popolo accorre da Lisbona a vedere la sua caravella. — ll re di Portogallo lo invita alla sua corte e lo ricolma di onori. — ll consiglio della Corona propone al re l’assassinio di Colombo. — ll re vi si rifiuta e l’onora. — La regina di Portogallo fa chiamare anch’essa Colombo, volendo udirne i racconti. — La Nina parte per la Spagna.
§ I.
Verso le tre pomeridiane Colombo giungeva a Rastello, e vi gettava l’áncora, ringraziando l’autore della vita di averlo sottratto ad una morte immancabile.
Incontanente spedì un messo in Castiglia per informare i sovrani del suo arrivo, indi scrisse al re di Portogallo, allora sequestrato nella bella villa di Valle Paradiso, a cagione della peste scoppiata in diversi luoghi, affine di essere autorizzato di andare a Lisbona, non si credendo sicuro a Rastello frequentato da gente capace d’un colpo di mano contro la sua caravella, creduta carica d’oro, perche veniva dalle Indie da lui scoperte. Prevedendo le suscettività di Giovanni II, insinuava accortamente che non era andato verso la Guinea, ma all’estremità dell’Asia per l’Occidente.
Fatto questo, Colombo riaperse una lettera scritta rapidamente in mezzo ad un mare ancora agitato, all’altezza delle Azzorre, e che indirizzava all’uomo della corte di Spagna, che aveva in più special modo giovato la sua impresa, facendo risolvere ad essa la Regina; ed era il nobile Luigi Santangel: vi aggiunse alcune righe per significargli che la tempesta lo aveva costretto di entrare nel fiume di Lisbona, cosa che risguardava come la più sorprendente. Diffatti egli aveva ogni cagione di temere del monarca che gli aveva tese insidie sul mare alla sua partenza, e i cui agenti, violando i più sacri diritti, avevano tentato di rovinarlo al suo ritorno: venire oggi a riparare ne’ suoi stati, era un ricoverarsi nell’antro del leone. Colombo si rendeva esattamente conto della gravità del pericolo; e, nondimeno, una suprema urgenza lo costringeva ad affrontarlo. Ma il Dio, che lo aveva salvato dai consigli omicidi della ribellione, e dai vortici dell’abisso, vegliava sopre di lui. Perciò, mentre confessava la stranezza e il mistero della irresistibile necessità che lo aveva costretto a ricoverare in casa del suo nemico, pure non ne andava conturbato.
lncontanente compilò per un altro personaggio della corte, il tesoriere don Raffaele Sanchez, una relazione del suo viaggio, che poco appresso venne pubblicata a Roma. Questa lettera, simile a quella indiritta a Luigi Santangel, non ne differisce che per lo stile. Vi si ritrova quel candore, quella sobrietà di imagini, e, nondimeno, quella vivezza di movimento ch’è propria a Colombo. Egli la terminava con uno slancio pieno di espansione, fatto per toccare ogni anima che appartiene a Gesù Cristo.
«Quantunque tutto ciò che venni riferendo, dic’egli, sembri straordinario od inudito, vi sarebbero cose assai più grandi se io avessi avuto a mia disposizione navi sufficienti, come’era desiderabile. Del resto, questa grande e vasta impresa non vuolsi ascrivere a mio particolar merito; ma sì alla santa fede cattolica, alla pietà ed alla religione de’ nostri Monarchi; perocchè il Signore ha conceduto agli uomini ciò che l’intelligenza umana non poteva nè concepire, nè fare; perchè Dio ascolta qualche volta le preghiere de’ suoi servi, che seguono i suoi precetti anche nelle cose che sembrano impossibili. Questo è ciò ch’è avvenuto a me, riuscito a bene in una impresa sino ad ora da nessun mortale tentata; poichè, quantunque fosse già stato scritto e parlato dell’esistenza di queste isole, pur tutti ne parlavano e ne scrivevano per congetture, e sotto la forma del dubbio; ma nessuno assicurava di averle vedute, a tale che si reputavano favolose: in conseguenza, il Re, la Regina, i principi e i loro felicissimi regni, di conserva colla cristianità, rendano grazie a nostro Signore Gesù Cristo, che ha conceduto a noi una simil vittoria, e così grandi successi: si facciano processioni, si celebrino feste solenni, i templi si adornino di ramoscelli e di fiori; la Sposa di Gesù Cristo palpiti di gioia sulla terra, com’egli si allegra ne’ cieli, alla prossima salute di tanti popoli sino ad ora derelitti alla perdizione! Allegriamoci noi pure così a motivo dell’esaltazione della nostra fede, come per l’accrescimento de’ beni temporali, di cui non solamente la Spagna, ma tutta la Cristianità è per raccogliere i frutti.»
La dimane, Bartolomeo Dias, ufficiale sulla nave ammiraglia della marineria portoghese, la meglio provveduta di artiglieria che fosse allora, andò colla sua scialuppa armata a bordo della Nina per significare a Colombo che venisse a presentare le sue carte ed a fare la sua dichiarazione agli ufficiali regi. Quantunque fosse sotto le batterie della nave portoghese, pur Colombo rispose che, non ostante lo stato della sua caravella, essendovi egli a bordo quale ammiraglio del Re e della Regina di Castiglia, non aveva alcun conto da rendere a simili impiegati, e che non v’andrebbe. L’ufficiale gli disse di mandare almeno il maestro della caravella. L’ammiraglio rispose che mandar uno de’ suoi, o andare egli stesso sarebbe la medesima cosa; che nessuno sarebbe tratto dal suo bordo altro che dalla forza delle armi; che gli ammiragli di Castiglia sapevano morire anzi che rendersi, o consegnare contra il diritto alcun de’ loro marinai. La fermezza di questa attitudine impauri l’ufficiale, che, mutando stile, lo pregò solamente di fornire la prova della sua carica, perchè potesse informarne il suo capo. L’ammiraglio degnò mostrargli i suoi diplomi. Appena il comandante Alvaro de Acanha ricevette la relazione dell’ufficiale, andò in gran cerimonia, a suon di timpani, di pifferi e di trombe a far la sua visita all’ammiraglio, ed a porsi interamente a sua disposizione.
La fama della scoperta di un nuovo mondo fatta da una nave ancorata nel Tago, era corsa rapidamente a Lisbona. Non ostante lo stato dell’atmosfera, la gente veniva in calca a Rastello, ed una moltitudine di barche empieva il fiume. L’ammirazione non era meno viva della curiosità. Si rendevano grazie a Dio di tale avvenimento, che una confusa intuizione, un presentimento segreto diceva essere immenso. La voce del popolo dichiarava che questa gloria era concessa alla Castiglia in ricompensa dello zelo che i suoi re mostravano a pro della religione.
Dopo il popolo venne la volta dei grandi. La dimane, gentiluomini e ufficiali del Re vennero alla caravella per vedere e udire le maraviglie del nuovo mondo, sin allora reputato favoloso. Gli uni deploravano che il re non avesse accettato le offerte di Colombo; altri confessavano, benedicendo al Signore, che tale successo pareva il premio della perseveranza de’ pii sovrani di Castiglia in propagare la religione di Gesù Cristo.
§ II.
Il venerdì, 8 marzo, un messo del re di Portogallo giunse a Colombo. Il Capo della nazione seguiva lo slancio del suo popolo: egli pregava graziosamente l’ammiraglio, poichè il tempo lo teneva ancorato, a volerne venire a lui, e comandava a’ suoi intendenti di fornirgli gratuitamente quanto bisognasse al suo equipaggio: aveva comandato ai principali ufficiali della sua casa di andare a incontrarlo, e gli aveva fatto preparare a Sacanben, ove doveva passare la notte, un’ospitalità reale. L’ammiraglio si mise adunque in via, accompagnato da uno de’ suoi piloti, che faceva ufficio di aiutante di campo. La pioggia continua non gli permise di giungere sino alla Valle del Paradiso altro che la sera della dimane; e fecevi la sua entrata in mezzo ad un nobile corteo.
L’accoglimento del sovrano superò tutti questi onori. Giovanni II lo ricevette come un principe del sangue; lo fece sedere, e volle si coprisse il capo alla sua presenza; mostrò di averlo in alta considerazione, gli parlò colla più grande affabilità, e gli espresse la sua soddisfazione pel buon esito dell’impresa; aggiungendo che n’era tanto più lieto perchè secondo un trattato del 1479 conchiuso colla Castiglia, la scoperta di que’ nuovi paesi e la loro conquista appartenevano a lui per diritto. L’ammiraglio rispose, che, non avendo letto un tale trattato, non ne poteva parlare utilmente; solo egli sapeva che nelle sue istruzioni eragli prescritto di non andare nè verso le miniere d’oro, nè sulle coste della Guinea, e che un tale ordine era stato pubblicato in tutti i porti dell’Andalusia prima del suo imbarco. Giovanni II replicò graziosamente che in sostanza un tale affare si comporrebbe sicuramente fra i due monarchi e lui, senza che bisognasse d’alcun intervento.
Indi il monarca fidò il suo ospite alle cure del più alto personaggio della corte.
La domenica mattina, all’uscir della messa, il re ripigliò le sue conferenze con Colombo, e gli domandò le particolarità del suo viaggio. Moltiplicò le sue dimande più assai che il giorno innanzi, e le variava quale amatore di cosmografia. E siccome nel soddisfare la sua curiosità, egli riconosceva la grandezza dell’impresa, provava un segreto dispetto di aver lasciato sfuggire coteste regioni maravigliose che gli aveva offerto Colombo, prima di proporle alla Castiglia: ebbe dei dubbi relativamente alle distanze ed alla strada percorsa: parevagli che si fossero usurpati i diritti del Portogallo guarantiti colla bolla conceduta per le istanze dell’Infante don Enrico. Immediatamente dopo quella conferenza riunì il suo Consiglio per esporgli il caso.
Mentre secondo la sua abitudine Colombo passava raccolto le ore della domenica fra la meditazione e la preghiera, a poca distanza da lui, nella sala del Consiglio, si trattava la quistione di distruggere il frutto delle sue fatiche, e di appropriarsi la nozione delle sue scoperte, mettendolo a morte.
Fu proposto al re l’assassinio di Colombo.
Per ributtante che sia una tale proposizione, e per impossibile che la sembri a noi nello stato de’ nostri costumi, pur essa venne fatta, in seduta, da cortigiani invidiosi della gloria straniera, e premurosi di mostrare al sovrano il loro attaccamento. Si vorrebbe poter dubitare di una tale infamia: ma se Colombo ebbe la generosità di tacerla, se suo figlio Fernando l’ha taciuta, gli storici stessi del Portogallo l’hanno chiarita vera, senza però notarla d’infamia nel loro giudizio.
Un cronista spagnuolo, Vasconcellos, biografo del re Giovanni II, riassume schiettamente questa condotta del Consiglio reale: «In tai dubbi il re volle udire il Consiglio, per fermare qual partito fosse da prendere. Alcuni parlatori ignoranti in geografia, confondendo la giacitura delle terre, affermavano che i paesi scoperti da Colombo appartenevano al Portogallo, e portavano opinione che si dovesse uccidere Colombo prima che se ne tornasse in Castiglia, senza di che conseguiterebbero gravi inconvenienti. Essi giudicavano che in simile occorrenza l’utile doveva prevalere sull’onesto; d’altra parte, considerata bene ogni cosa, non meritava forse l’estremo supplizio l’uomo che aveva osato beffarsi di un così gran principe?»
Era noto quanto il re avesse desiderato quella scoperta, e come ne avesse scritto a Colombo, in Ispagna; ricordavano la sua collera, quando seppe il suo trattato colla Castiglia; rammentavano gli ordini dati ai governatori delle isole ed alle navi che lo scontrassero in mare: i cortigiani pensarono riuscir gradevoli al monarca suggerendo un’occasione propizia a vendicarsi; insinuarono che Colombo non era giunto in Portogallo che per ingannare il re; che l’ostentazione delle sue scoperte diventava un oltraggio, un delitto di lesa maestà: un biografo autorevole, Garcia de Resenda, riferisce che «il re fu sollecitato ad approvare che lo si uccidesse, perchè colla sua morte questa scoperta non sarebbe stata spinta più avanti dalla Castiglia.» Il padre della storia portoghese, il gran Giovanni di Barros, racconta l’offerta che fecero alcuni gentiluomini «di ucciderlo essi medesimi,» per iinpedirlo di tornare in Castiglia. Appare da diverse relazioni portoghesi che i cortigiani trovavano un pretesto plausibile di ucciderlo impunemente, sia pigliando qual offesa la sua soddisfazione di particolareggiare al re l’importanza della scoperta, sia profittando della sua estrema vivacità per fargli perdere la pazienza, suscitare una lite e ammazzarlo.
Ma il re temeva Dio, e respinse queste offerte, dice Barras, «da principe cattolico; «d’altronde, lo spirito elevato di Giovanni II, la sua stima della scienza e della navigazione, facevangli sentire meglio che ad altri l’ascendente ch’esercitava Colombo: la presenza dello Straniero aveva cancellato i risentimenti dianzi provocati da lui: il re vietò severamente che si attentasse alla vita del suo ospite, e comandò che fosse trattato coi maggiori risguardi.
Altri consiglieri meno violenti, ma più astuti, riconoscevano in massima ch’è dovere de’ sovrani di accogliere ne’ loro porti chiunque vi si ripara contra gli accidenti del mare. Essi erano dell’opinione che si dovesse lasciar partire liberamente l’ammiraglio Colombo; ma volevano che la quistione delle scoperte fosse decisa colle armi; e che prima che la Castiglia avesse preparata una seconda spedizione si pigliasse militarmente possesso del terreno, cosa che sarebbe facile per l’indicazione dei due portoghesi che avevano ricondotto la caravella. Quest’ultimo consiglio fu quello che adottò Giovanni II, e incontanente combinò in segreto la sua spedizione.
Il lunedì, l’ammiraglio prese congedo dal re. Il monarca gli diede mille prove di stima. Per suo comando, don Martino di Noronna lo ricondusse, circondato da tutti i signori della corte, per rendergli più grande onore.
Invitato dalla regina, vogliosissima di parlargli, l’ammiraglio andò al monastero di sant’Antonio, ov’ella si trovava allora colle prime dame della corte. Anch’essa lo ricolmò delle sue reali cortesie, e si prese gran piacere di interrogarlo su quel Nuovo Mondo ch’egli voleva sottoporre alla legge del Vangelo. Lo trattenne il sì lungo tempo, ch’era già notte quando partì per andare a pernottare a Llandra.
La dimane, in quella che si alzava da letto, uno scudiere del re venne da parte del suo signore ad offerirgli, caso che anteponesse andar per terra in Castiglia, di accompagnarlo sino a’ confini, avendo ordine di provvederlo a spese della corona, di albergo, di cavalli e di tutto quanto bisognasse. Al tempo stesso gli menava, qual presente, una mula delle scuderie del re, e un’altra pel piloto suo aiutante di campo, al quale diede altresì venti ducati d’oro. L’ammiraglio amò meglio tornare per mare, sendosi il tempo addolcito: così, non pote essere a bordo della Nina che ad ora assai tarda della notte.
Alle otto del mattino, fece ritirar le áncore, e colla marea alta, e un vento di nord-nord-ovest, veleggiò verso la Spagna: scemando il vento, non avanzò gran fatto nella prima giornata.