Cosmorama Pittorico/Anno I - n. 36/Bartolomeo Coleone

Defendente Sacchi

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BARTOLOMEO COLEONE.

Ebbe Italia nel secolo XV molti capitani esperti, prudenti, audaci quanto le città dell’antica Grecia; passano i più inonorati o per incuria degli storici, o perchè datisi a seguire la ventura come voleano gli ordinamenti di que’ dì, non giovarono ad un paese, e le loro azioni andarono confuse con quelle degli Stati cui servirono: tale fu Bartolomeo Coleone; fra le sue azioni alcune sole basterebbero a fare grande un antico.

Ei nacque nel 1400 su quel di Bergamo, a Solza, castello ove tenea signoria la sua famiglia; uccisogli il padre mentre era ancor fanciullo, fuggì la patria, ricovrò a Piacenza, ove Filippo Arcelli lo tenne come paggio: giovane, queto, taciturno, fu creduto imbecille; fu deriso. Coleone attendeva l’occasione a svolgere la propria energia: sdegnò servire fra le mollezze, desiderò la guerra; prese la via di Napoli; viaggiò a piedi, sostenne disagi, dormì sul suolo: non ne lamentò, pensava ad una gloria futura. A Napoli entrò nel campo di Sforza e di Braccio di Montone; apprese ad armeggiare, e parve prode; era avvenente, fu vezzeggiato dalla regina Giovanna; ma ei voleva un grado, e non ottenendolo, pensò di cercare miglior ventura; salpò per la Francia, e preso da corsari, fu ricondotta a Napoli. Ivi s’accostò a Jacopo Caldora e ottenne di comandare venti cavalli, e dopo essersi mostrato prode, trentacinque; tanto pena sovente l’uomo a porsi in occasione che chiarisca di quanto sia capace. In fatti Coleone fece di seguito l’assedio d’Aquila e di Bologna: prode, comandante e soldato, usava ad un tempo il consiglio e la mano: il Caldora vinse con lui; ei s’acquistò gloria, e l’essere richiesto a capitano dalla Veneta Repubblica.

Allora Coleone sotto il comando del Carmagnola combattè contro l’armi di Filippo Maria Visconti capitanale dal Piccinino; attendeva a quanto operavano que’ due rivali, e apprendeva dall’amico e dal nemico; osteggiò Cremona con tanta prudenza, che, spento il Carmagnola dalla gelosia dei Veneziani, ebbe il carico della guerra. Quindi difende Bergamo, prende la rôcca di Gardona, ritorna a Brescia vittorioso ed il Senato veneziano il rimerita creandolo capitano dell’infanteria.

Finalmente Coleone raggiunge un lungo desiderio, è comandante e può da sè condurre un’impresa; e la sua prima fu ardita e grande. Imperava l’alleata armata veneta Francesco Sforza, quella del Visconti il Piccinino; questi stringeva d’assedio Brescia, e appena Francesco Barbaro valeva a sostenere il coraggio da’ tribulati cittadini; lo Sforza stendendosi sui colli euganei riparava alle truppa che divise dall’armata erano battute dalle armi del Visconti, ma non valeva a liberare o soccorrere Brescia. Coleone pensa sussidiarla per mezzo del Lago di Garda, penetra in val Lagarina, prende Torbole chiave del Lago; ma era nulla, bisognava navigarlo, fare fronte alla flotta nemica che stanziava a Peschiera e non si aveva un palischermo. Allora ei leva l’animo ad un gran pensiero; trova un ingegnere Candiotto, conferisce e decide di trasportare a traverso de’ monti una flotta e gettarla nel lago.

Parve delirio; il fatto rispose: fe’ condurre alle foci dell’Adige due galee grandi, tre mezzane, e venticinque barche armate, e risalì il fiume fino quasi a Roveredo: era solo lungi da Torbole intorno a quindici miglia; ma in mezzo vi erano erti monti che separano il lago dalla valle dell’Adige; solo fra quelle erte si avvallava un piccolo lago di S. Andrea; Coleone e due mila fra soldati ed operai sgombrano la salita, abbattono piante, gettano ponti, e fatta la via, attaccano trecento buoi per ogni nave, sollevano, strascinano, trasportano la flotta dall’Adige sulla montagna e la ripongono nel piccolo lago. Restava ancora a superare il monte Baldo, si prese la via d’un torrente, aspra, tortuosa, angusta; tutto s’agguaglia alla pertinacia de’ Veneziani, e le navi salirono ove non aveano annidato che uccelli. Di là si calarono sul rapido pendio, sostenendole a corde rafferme a piante, e dopo quindici giorni d’improba fatica, la flotta, per via inusitata, calò nel lago, imperante Coleone.

Audace impresa audacemente eseguila, e che ben può contendere coi più famosi passaggi alpini antichi e moderni; poichè se è arduo condurre un’armata fra monti, non lo è meno trascinarvi trenta navi: non decise che d’una piccola fazione, quindi andò inosservata nella storia, tanto è vero che il fine dà merito ad un’impresa.

Coleone colla gloria accresceva di forze; avea cinquecento militi a proprio soldo e divenne capitano di ventura: quindi, fatta tregua di quella guerra, lasciò Venezia e s’accostò al Visconti, e presa in nome di lui varie castella del cremonese. Ma il Piccinino lo odiava, volle perderlo: fu accusato di tradimento, e il Duca il fe’ gittare nel carcere di Monza, ove restò un anno, solo visitato e confortato dalla moglie Tisbe. Forse vi peria, ma fu ventura per lui, che le nequizie di Filippo Maria stancassero gli uomini e il cielo, e i Milanesi bisognando un capitano liberarono Coleone; ebbe il carico della guerra contro il Duca d’Orleans che pretendeva alla signoria dello Stato di Milano; e nell’11 ottobre 1447 ottenne al Bosco bella vittoria con una carica ardita e improvvista. Si raccese la guerra l’anno seguente fra’ Milanesi ed il Duca di Savoja, e Coleone nelle due battaglie del 2 e del 23 aprile al Bosco, acquistò gloria a sè ed all’Italia.

Dopo questi fatti, lasciò il campo de’ Milanesi e tornò a quello de’ Veneziani, indi di nuovo si collegò collo Sforza a danno di Venezia nel 1451, e finalmente tornò al soldo veneziano nel 1454: sono mutamenti vergognosi, ma consueti a que’ , e tanti ne fecero Carmagnola, Sforza, Piccinino, e gli Stati stessi non ne dolevano: infatti, sebbene corresse voce che il Senato attendesse di far assassinare Coleone nel 1451, dopo lo prese ancora a proprio generale, e gli diede onori e tanta podestà, che a due senatori che vennero a visitarlo nell’ultima sua malattia, fra i sensi di gratitudine ei disse, consigliassero la repubblica di non commettere mai più a nessun generale l’autorità ed il potere che avea concessi a lui.

Fu per ventun’anno supremo generale dell’armata veneziana, ma furono anni di pace, e solo turbata nel 1467 da fuorusciti firentini che mossero guerra a’ Medici: chiesero sussidio alla Repubblica Veneta: non accondiscese, ma concesse al Coleone di rendersi co’ suoi militi in loro soccorso: passò il Po, fu [p. 284 modifica]sull’Imolese, e condusse la guerra: in questa il vecchio generale ricorse a nuove armi; pensò pel primo adoperare in battaglia le artiglierie innanzi solo usate a difendere e ad oppugnare fortezze. Pose sui carri spingarde lunghe tre braccia, le strascinò in campo, le collocò dietro le schiere, ed al momento della battaglia dato un segno di tromba, sicchè i soldati si dividessero in due ale, posto fuoco alle artiglierie le scarica contro a’ nemici. Fu battaglia micidiale oltre il consueto, talchè Ercole duca di Ferrara ferito ad un calcagno da una scaglia, mandò lamenti al Coleone perchè avesse usate armi barbare: erano le battaglie a que’ di ostinate, lunghe, ma poco micidiali; perchè mal potevano le mazze e le spade contro i soldati vestiti tutti di ferro: si battevano talora un intero giorno, e ne morivano due militi arroncinati fuor di sella. Fu fatale l’esperimento del Coleone; ciò non toglie si debba a lui il merito d’una nuova applicazione nell’arte della guerra, che segnerà per epoca la battaglia di Molinella data ai 15 luglio 1467, e non a Francesi, come asserisce Guicciardini; è vergognoso che anche il Venturi e il Grassi gli tacessero questa gloria. Coleone inoltre in quel fatto fu al solito esperto nell’ordinare le schiere e prode nel combattere colla spada; pugnò di giorno e di notte, riordinò i suoi che piegavano, nè si messe dal caldo della mischia finchè ottenne vittoria: fu giudicato pari alla sua riputazione di primo capitano del tempo.

Dopo ritornò alla domestica quiete nel suo castello di Malpaga ove viveva usando splendidamente le dovizie acquisiate in tante guerre. Ivi accoglieva gli amici, i generosi, sdegnava i tristi. — A che pro, diceva, conversare con gentaglia, con cui bisogna rilasciar l’arco dell’anima? Oltre a ciò sarei da essi in cospetto blandito e dietro le spalle maledetto; che il costume de’ balordi è di compassionare gl’infelici, invidiare i prosperi, mordere con velenoso dente chi loro sovrasta. — Un dì Antonio Cigola dicevagli essere sciagurata la propria età: ei rispondea: — Mio zio dicea lo stesso, e tale riferiva essere stati i lamenti di suo padre, tali quegli degli avi. — Però Coleone sebben mostrasse con ciò dannare il difetto de’ vecchi, non seppe toglierlo dell’animo suo, poichè canuto ricreavasi di narrare sovente le proprie gesta e magnificarle.

Tra questa gloria compiacevasi di creare a Bergamo templi, ospizj di carità, fra quali quello di Pietà che dava doti a povere fanciulle; compiacevasi nell’educare le proprie figlie alle domestiche virtù, e volle fossero casalinghe, sapessero cucire, tessere e cucinare, e potè consolarsi di vederle spose e felici: in questa letizia, nell’età grave di 75 anni, ai 14 novembre 1475, chinò il capo all’estremo sonno.

Fu uomo mutabile come tutti i capitani di ventura: era il costume del tempo: amò la gloria, le ricchezze: fu moderato ed ambizioso: quindi azioni belle e biasimevoli: morendo, oltre ai pii legati, lasciò alla Repubblica Veneta molta parte de’ tesori adunati col credito che ella gli fece; e questa riconoscente gli elevò sulla Piazza di San Giovanni e Polo una statua di bronzo dorata, modellata da Andrea del Verocchio e fusa da Alessandro Leopardi della quale diamo il disegno: è tuttavia bell’ornamento di Venezia e testimone della gloria de’ capitani Italiani: qui le arti soccorrono alla storia per richiamare sempre la ricordanza d’un prode verso cui i posteri non furono sempre riconoscenti.

Defendente Sacchi.


STATUA EQUESTRE DI BARTOLOMEO COLEONE.