Cosmo, sì lungo stuol lieto in sembianza
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LXXX
XIII
Cosmo, sì lungo stuol lieto in sembianza,
Che a’ tuoi piedi s’atterra oggi dal seno,
Perchè franco lo fai, letizia spande.
Ei dee ben conservar la rimembranza
5Di questo giorno, e tu di lui non meno,
Che quante volte in terra anima grande
Felicità comparte,
D’assimigliarsi a Dio ritrova l’arte.
Sforza dunque, o mio re, l’alto pensiero,
10Onde gli scettri tuoi splendono chiari:
So che di torri e che di mura eccelse
E forte quel che tu governi impero;
O guardi l’Alpi, o pur difenda i mari:
So che suoi pidi in lui Cerere scelse,
15E che le genti industri
Son di Minerva nelle scuole illustri.
Ma contrastati se ne van repente
Tai pregj al vento: ecco la terra Argiva
Langue tra’ ceppi, e di catene è carca;
20E dell’aspro Quirin l’inclita gente,
Quando di palme eterne alma fioriva,
Calpestando superba ogni monarca,
Trionfo tanto e vinse,
Perchè la spada infaticabil cinse.
25Dannata vista, e di mirarsi indegna,
Gioventù, che di gemme orni le dita,
Che increspi il crine, e che di nardo odori!
Ell’hassi da mirar sotto l’insegna,
Che scuotendo cimier minacci ardita.
30Che dallo sguardo fier versi furori,
E che d’onor ben vaga
Esponga il petto a memorabil piaga.
Di così fatto onor saggio s’accorse
Giovanni1 il franco, che del Mincio all’onde
35Lasciò col suo morir l’Italia mesta;
Poi per quell’orme ognun de’ suoi sen corse:
E Cosmo di Livorno in sulle sponde
Oggi l’Etruria a suon d’acciar tien desta,
E con purpuree croci
40Manda in battaglia i Cavalier feroci.
Or chi di verde allor non cerca rami
A far ghirlande? e chi d’Aonii canti
Agli spirti guerrier non dà tributo?
Chi può l’armi tacer d’un Inghirami?
45O la fervida man d’un Sozzifanti?
O l’intrepido cor d’un Montacuto?
O biondo Apollo, o Dive,
Di ciascun taccia chi di lor non scrive.
Certo nel petto mio sembra, che avvampi
50Ardor di Febo: o Calabrese arena,
Che a te non corra, io me frenar non basto:
E non men dell’Egeo trascorro i campi,
Ove le turche braccia aspra catena
Costrinse al fin dopo mortal contrasto;
55E sol miro dolente
Schiatti, che bronzo fea tonare ardente.
Potrei de’ fregj, onde Parnaso adorna
L’altrui virtude, oggi abbellir miei versi.
Bacco in mente mi vien sul lido Eoo;
60E so, che svelte rimirò sue corna
Dopo lung’arte negli assalti avversi
Sotto l’Erculea man vinto Acheloo;
E che campagne arate
Dieder non spiche, ma falangi armate2.
65Rammento l’Idra, e i fieri incontri e crudi,
Se mai la turba delle teste orrende
Il germe fier d’Anfitrïone assalta:
Questi son delle Muse egregj studi
Chè ogni vigilia a gran ragion si spende,
70Allor che merto di valor s’esalta;
Ma quando alto ei lampeggia,
Par che ornamento fuor di sè non chieggia.
Note
- ↑ Allude a Giovanni Medici, generale italiano, celebre per la sua intrepidezza nel principio del secolo XVI. Discendeva da Lorenzo il vecchio, fratello di Cosimo, padre della patria. Fu padre di Cosimo, il quale, mancato il ramo primogenito de’ Medici, fu primo granduca di Toscana. Questo Generale prestò i suoi servigi ai papi Leone X e Clemente VII suoi parenti; alla Repubblica Fiorentina contro il Duca d’Urbino: nella guerra tra i Francesi e gl’Imperiali in Lombardia, or sotto gli uni, or sotto gli altri, ma sempre tenendo le parti del Pontefice. Morì presso Mantova d’un colpo di falconetto, inseguendo il capitano Fronsperg, quello stesso che poi saccheggiò Roma. suoi soldati gli erano così affezionati, che tutti vestirono a lutto; nè più avendo dismesso il color nero, furono chiamati le così dette Bande nere, famose in quella guerra per ferocia e valore.
- ↑ Allude a Giasone.