Così parlò Zarathustra/Parte quarta/L'ombra
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L’ombra.
Ma poi che il mendicante volontario scomparve, Zarathustra rimasto solo un’altra volta sentì risuonare dietro a sè una voce, che gli gridava: «Alto là, Zarathustra: Attendi dunque! Sono io, Zarathustra: io, la tua ombra!». Ma egli non sostò, giacchè fu preso da ira contro coloro che s’addentravano nei suoi monti.
«Dove se n’è andata la mia solitudine? — chiese.
Ne ho di troppo: questa montagna pullula di esseri umani; il mio regno non è più di questo mondo: io ho bisogno di nuove montagne. La mia ombra mi chiama? E che m’importa della mia ombra? Corra essa pure dietro di me! io le sfuggirò».
Così parlò Zarathustra, e prese a correre. Ma colui che gli stava dietro lo seguiva; sicchè in breve correvano in tre: l’uno dietro all’altro, cioè prima il mendicante volontario, poi Zarathustra e da ultimo la sua ombra. Non corsero a lungo così, che Zarathustra riconobbe d’aver fatto una sciocchezza e con una scrollatina di spalle scosse da sè il fastidio e la noia.
«E come!», disse, «non successero forse da che mondo è mondo le cose più strane tra noi vecchi eremiti e santi?
Invero, la mia follìa crebbe alta nei monti! Ora io sento sei paia di gambe di vecchi pazzi trottare dietro di me!
Ma può forse Zarathustra aver timore d’un’ombra? E poi mi sembra, in fin dei conti, che le sue gambe son più lunghe delle mie».
Così parlò Zarathustra ridendo con gli occhi e con tutti i suoi visceri; poi si soffermò e si volse rapidamente — e, vedi caso, per poco non avrebbe rovesciato colei che l’inseguiva, cioè la sua ombra; poichè già tanto gli era da presso e tanto debole era. Ora, poi che l’ebbe considerata coi propri! occhi, Zarathustra ne provò terrore come alla vista d’uno spettro: tanto gli apparve adusta, logora e vecchia quella sua persecutrice.
«Chi sei tu?», chiese egli con veemenza, «che fai tu qui? E perchè ti fai chiamare la mia ombra? Tu non mi piaci».
«Perdonami», rispose l’ombra, «che io sia tale; e se io non ti piaccio, ebbene, Zarathustra! io loderò te il tuo buon gusto.
Io sono un viandante che ho già molto camminato dietro alle tue calcagna; sempre in cammino, ma senza meta, e senza tregua, sicchè potevo essere chiamata, sebbene non fossi, israelita.
E come? Dovrò esser sempre in cammino? Sospinta dal vortice d’ogni vento? cacciata senza posa? Oh terra, per me tu fosti troppo rotonda!
Io mi trovai già su tutte le superficie; simile alla stanca polvere io m’addormentai sugli specchi e sui vetri delle finestre: ogni cosa mi toglie alcunchè, nessuna mi dà nulla, e io divento sottile, — e per poco non rassomiglio ad un’ombra.
Ma verso te, o Zarathustra, io volai: dietro a te ho errato più a lungo; e sebbene mi ti celassi, pure fui la migliore delle tue ombre! Dove tu ti sei seduto, mi sedetti anch’io.
Con te mi sono aggirato nei mondi più freddi e lontani, simile ad un fantasma, che trasvola sui tetti invernali bianchi di neve. Con te cercai di penetrare in tutto ciò che è proibito, perverso, remoto: e se qualcosa in me può chiamarsi virtù, questa è certamente il disprezzo d’ogni proibizione.
Con te infransi tutto ciò che il mio cuore può aver adorato, rovesciai tutte le pietre terminali e le imagini, corsi dietro ai desideri più pericolosi, — tanto che non v’ha delitto a traverso il quale io non sia già passata.
Con te disimparai a credere nelle parole e nei valori e nei grandi nomi. Quando il diavolo muta la pelle non perde forse con essa anche il nome? Giacchè è superficie anche il nome: forse il diavolo stesso non è altro che un’epidermide.
«Nulla è vero, tutto è permesso»: così dissi a me stessa.
Mi lanciai nelle acque più gelide con la testa e col cuore. Ah quante volte io ne riuscii rossa come un gambero!
Ah, dove se n’è andato ciò che v’era di buono in me: il mio pudore, la mia fede nei buoni? Ah dov’è quella leggiadra innocenza, che un di io possedeva: l’innocenza dei buoni e delle loro nobili menzogne?
Troppo spesso, invero, fui schiava della verità; ed essa finì per mettermi il piede sul collo. Spesse volte credetti mentire e invece avevo colto nel vero.
Troppe cose mi si rivelarono: ora non me ne importa più nulla. Nulla vive più di ciò che amo: come dunque potrei amare ancora me stessa?
«Vivere secondo il mio desiderio o non vivere»; così io voglio, e così vuole anche l’essere più santo. Ma, ahimè! come posso io provar ancora il desiderio?
Ho io forse ancora una meta? Un porto, verso il quale tenda la mia vela? Un vento propizio? Ah, soltanto colui che ha una meta al suo viaggio, sa quale vento gli sia propizio.
Che cosa ancora mi restò"? Un cuore stanco e insolente; una volontà incostante; ali malsecure per volare; una spina dorsale spezzata.
L’andare in cerca della mia dimora, o Zarathustra — sappilo — questa è la mia punizione.
«Dov’è la mia dimora?». Ecco ciò che io chiedo; ciò che cerco e cercai; ma inutilmente. Oh eterno «da per tutto», o eterno «in nessun luogo» — o eterno «inverno!».
Così parlò l’ombra; e la faccia di Zarathustra s’oscurò nell’udir tali parole. «Tu sei la mia ombra»: disse con tristezza.
«Il pericolo che tu corri non è piccolo, o spirito libero, o viandante! Fu una giornata cattiva la tua: guardati che la sera non sia anche peggiore!
«Agli inquieti tuoi pari la prigione stessa finisce per sembrar un bene. Hai tu visto mai come dormono i prigionieri?
Dormono tranquillamente, a cagione della lor nuova sicurezza.
«Guardati dal finir a diventare il prigioniero d’una credenza angusta, d’un’illusione dura e rigorosa! Per te ormai tutto ciò che è angusto e solido è una tentazione, una seduzione.
«Tu hai perduto la meta! E così tu hai smarrita anche la tua strada!
«Povera anima errante, povera stanca farfalla! Vuoi trovare un rifugio per questa sera? Allora recati lassù nella mia caverna!
E ora voglio fuggire in fretta da te. Sento distendersi su di me un’ombra.
Io voglio correre solo, affinchè intorno a me si faccia la luce un’altra volta!
Per ciò mi bisogna serbarmi valido e allegro. Ma questa sera da me si danzerà!».
Così parlò Zarathustra.