Clelia/XIII
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CAPITOLO XIII.
LA BELLA STRANIERA.
Noi già dicemmo che Roma è la terra classica delle belle arti. — Là sono ammonticchiate le mine del mondo antico coi loro templi colonne, obelischi, statue — avanzi dell’arte Greca e Romana — capolavori dei Prassiteli. dei Fidia; dei Raffaelli. dei Michelangeli! — Là sorgono ad ogni passo — fontane, ove nuotano colossi marini — ruine — le cui macerie vedute da lontano — sembrano montagne all’attonito viaggiatore — colonne di venti secoli — lanciate nelle nubi — ove sul bronzo sono scolpite le mille battaglie del popolo gigante — infine meraviglie d’ogni specie — che il ricco straniero — visita con ammirazione — e copia per portare nelle sue terre — ai suoi amici — un simulacro della maggiore delle grandezze umane.
I preti hanno tentato deturpare quell’opera stupenda di venticinque secoli — con delle mitre e delle Vie Crucis1 — ma non ci riuscirono. — Il bello — il grande — il sublime — ancor più sublime comparisce — in mezzo alle loro miserie!
Giulia — la bellissima figlia d’Albione — abitava Roma da più anni. — Progenie di popolo libero — disprezzava tutto quanto apparteneva alla famiglia dei chiercuti. — Ma Roma! La Roma del genio e delle leggende — la patria dei Fabi e dei Cincinnati — l’emporio delle meraviglie umane — era per Giulia un incantesimo. — Conosceva ogni cosa bella di Roma. — Aveva impiegato ogni giorno, ogni minuto a visitarla. — Esimia cultrice delle belle arti sapeva apprezzare i capo -lavori — e il suo compito quotidiano era copiarli. Fra i grandi maestri — essa s’era fatta un idolo del Buonarroti — e seguiva la sua scuola mista d’ogni studio artistico e gentile. Davanti alla stupenda colossale figura del Mosè2 — passava ore intere in contemplazione. La impronta di grandezza — su quella fronte — e l’atteggiamento maestoso — le sembravano inimitabili e sovrumani.
In Roma ella avea scelto il suo domicilio — in Roma avea trovato il pascolo necessario al sommo suo genio — all’immenso amor suo del bello — ed in Roma aveva deciso di vivere e morire — perchè non avrebbe potuto strapparsi per un giorno solo a tutti quegli oggetti della sua idolatria.
Giovane — ricca — nata e cresciuta nella bella e lieta Inghilterra — come poteva Giulia separarsene per sempre e per sempre abbandonare amici e congiunti che tanto l’amavano? — Che volete! Essa aveva trovato il suo Eden tra le macerie — e sotto la toga cenciosa del nostro mendico aveva scoperto colla sua immaginazione esaltata il tipo della fiera razza degli antichi Quiriti.
Nello studio di Manlio — ov’ella si recava sovente — s’era incontrata con Muzio — il quale posava davanti alla creta del maestro.
Che importava a Giulia la bassa condizione di lui! Non v’era forse su quella fronte l’impronta che cerchereste — per eleggervi un capo — un protettore — un amico? In quel portamento v’era tutta la maestà ch’essa tanto ammirava nel suo idolo di marmo.
Infine mendico o non mendico — Giulia — amò Muzio dal primo istante in cui lo vide. — Era povero? — E che importava a Giulia? Se la povertà è un marchio d’infamia per il volgo del tanto per cento — così non è per il genio. — Ma infine i ricchi sono essi la miglior pasta dell’umana famiglia? Dalla stessa storia del nostro povero Muzio — sembrerebbe di no.
E Muzio amava Giulia? Muzio avrebbe dato l’universo per essa, ma — giammai! egli avrebbe ardito di manifestarle l’affetto suo.
Una sera due soldati stranieri avvinazzati assalirono la nostra gentile inglese — nella Lungara — quando soletta tornavasene dallo studio di Manlio — ed a forza volevano trascinarla con loro. — Quello fu il più bel momento della vita di Muzio — che aveva seguito da lontano la bella straniera — egli ferì ed atterrò l’uno: l’altro si diede alla fuga — da quella sera il suo pugnale gli era diventato sacro — e Giulia da quella sera non fu più insultata per la via,
Il giorno stesso nel quale le donne di Manlio avevano stabilito di recarsi al palazzo Corsini — Giulia ascendeva il Gianicolo per fare una visita allo studio di lui. — Da un giovine allievo sapeva la dolorosa storia del maestro — seppe della gita delle donne — ma non potè sapere quale fosse il vero motivo della disgrazia.
Mentre stava meditabonda e perplessa sullo strano caso — capitava Attilio — e da lui uditi i particolari della faccenda — non dubitò un momento che l’intrigo disonesto — non fosse opera del porporato.
«Bene!» disse ad Attilio la giovane straniera — «da quanto odo — le donne uscirono per chiedere in grazia la liberazione di Manlio — non c’è un istante da perdere — io ho accesso al palazzo Corsini, spero prima di notte potervi informare d’ogni cosa.» Così parlando, e senza meglio chiarire i suoi disegni, accommiatossi.
Il nostro Attilio stanco dai disagi e dalle fatiche della notte — disperato di non trovare in casa la sua Clelia — sedette per interrogare con più agio il giovane Spartaco — su cosa per lui di tanto interesse.