Cinque dialoghi dell'arte poetica/Il Forzano
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IL FORZANO
DIALOGO
in cui è introdotto un discorso sovra
un sonetto del petrarca
e Gio. Battista Forzano.
P. D’onde e dove, signor Giovambatista?
F. Ieri venni di Genova, questa mattina fui ad adorare la Madonna santissima di Misericordia, ora io cercava a casa il signor Chiabrera, ma non è vero ch’io ve l’abbia trova-to: ecco ond’io vengo, dove mi vada non mel so.
V. Il signor Chiabrera non è da cercarsi in casa a quest'ora, egli dee essere a Siracusa.
F. Come domine a Siracusa? già ben vecchio fa così fitti viaggi?
V. Non è, questa ch’io dico, Siracusa di Sicilia; ella è Siracusa di Parnaso.
F. Non apprendo.
V. Dirovvi; voi sapete ov’era la chiesa di s. Lucia su la strada di s. Jacopo. Quella che era già vecchia s’è abbattuta, ed essene murata un’altra alquanto maggiore della vecchia: rimase un poco di mina sovra uno scoglio, e il signor Cbiabrera ha di muraglia recinto quel luogo, ed hallo partito in picciolo giardinetto ed in picciola cameretta, dalla quale si passa in una loggetta ed in un poco di gallerìa.
F. Deh, perchè gli venne vaghezza di sì scarse abitazioni?
V. Perchè le condizioni del picciolo luogo non sono nè picciole nè vili: la chiesa lo guarda dal vento tramontano, sì che il verno non vi pon freddo, ed essendo sposto al mezzogiorno, per la loggetta entra il sole e hacci l'aria tepida soavemente; e per la stagione del caldo, godesi il fiato de' venti marini, il quale rinfresca alcuna volta soverchio; giugnète, che è su la via di s. Jacopo, frequentata da' cittadini e da' uomini di villa per modo che stavisi solitario o accompagnato, com’ altri vuole.
F. Voi me lo rappresentate si fatto che mi prende voglia di più intenderne.
V. L’avanzo diravvelo l’occhio. Andiamo colà; troveremovi il signor suo; se non vi dimorasse, ho meco la chiave, perchè di suo buon grado posso entrarvi e soggiornarvi a mio talento.
F. Andiamo, ed anco di buon passo. Veramente è bella questa veduta di mare!
V. Già sapete, che i poeti cantano Venere, esservi nata; essi non invano il cantano.
F. I piani di Lombardia non si vergognino di essere vinti: queste sono pianure moventisi, nè giammai l’occhio a loro ritorna che le trovi quelle medesime.
V. Ora siam giunti: io aprirò, perchè il signor Chiabrera non c’è; egli dee essere alla sua villa di Leggine — Mirate: eccovi Genova, che ci si mostra manifestissima; mirate tutte le rive e tutti i capi delle montagne; mirate barche che veleggiano e che vogano. Ma entriamo nella stanza; già non credo che desideriate più lume; qua, su la sera, luce come di bel mezzo giorno.
F. Per verità, che sì fatto scoglio non poteva meglio adornarsi: sediamo, e confortiamoci — Ma che fogli sono sul tavolino?
V. Non so; nome di autore non si legge; ben veggo scritto: Discorso sovra un Sonetto del Petrarca.
F. Questa scrittura darà compimento al nostro diletto.
V. Veramente il signor Chiabrera de' componimenti volgari non suol tenere i volgari — Qui ambedue non possiamo leggere; uno legga, e l’altro ascolti.
F. Io sarò l'uditore, perchè la mia vista incomincia a farsi fievole.
V. Dunque incomincierò?
F. Io ve ne prego.
V. Udite.
”Condottomi in questo luogo, io non so, o Signori, se la presente azione debba essermi cara o discara, e se la mia memoria dorerà rimanervi gioconda, o no. Veramente essere posto in seggia destinata ad uomini chiari per favellare è grand’ onore, ed essere ascoltato di a persone d’ingegno e d’intelletto sublime, vie più; ma queste condizioni averebbono forza quand'io potessi tanto o quanto accompagnarle. Certo io non ho per lo spazio della mia vita tentato d’onorarmi in sì fatta maniera, nè altrettante parole ho fatte in prosa giammai. Che dunque posso io aspettare per l'esercizio di un’arte la quale io non appresi? Egli è vero, che la vostra singolar gentilezza perdonerà le mie colpe, ma senza dubbio il vostro allo sapere pienamente le comprenderà; e per tal modo le cose che ad uomo esercitato in questi affari direbbono coraggio, a’ miei pari possono dare spavento: non per tanto io voglio fare animo a me medesimo, e di buon grado pormi in questo arringo. La vostra vaghezza di sentirmi farà scusa della presonzione che potesse oppormisi. E qual colpa di villano costume ugual alla mia s’io non avessi ubbidito? sosterranno dunque lo Signorie Vostre per brevissimo spazio la noia di udire un uomo, che parla non perchè sappia parlare, ma perchè fu preso da desiderio di servire; ed è in questo luogo, non per torlo a chi con tanto valore l'onora, ma per doversi pregiare della ventura d'esservi potuto venire. E di questo non più; ben dirò due parole sopra la materia del mio Discorso.
”Io, o Signori, se fossi esperto di alcuna scienza, vi porterei all'orecchie alcun soggetto onde potessero le SS. VV. adornare la sublimità del loro intelletto, ma io ho speso gli anni negli orti delle Muse e sulle pendici del Parnaso, e però tenterò di ricrearvi con la dolcezza di alcuna leggiadra poesia. E non sarà fuor di ragione. Già i segreti del Liceo e dell'Accademia sogliono qui manifestarsi ad uomini i quelli sono adottali dagli Aristoteli e dagli Ippocrati; dunque, richiamando la mente vostra da quelle cime, io condurrolla a riposarsi tra la soavità delle Muse: e perché tra i nostri poeti niuno ce n’ha, il quale abbia più grazia con le anime gentili che il Petrarca, a lui mi appoggierò. E perché, secondo la unversale sentenza, egli avanzo sè medesimo nella Seconda Parte delle sue Rime, tra queste io ho scelto un Sonetto, e intorno lui andrò ragionando quanto la fievolezza mia consentirà. Il Sonetto è questo:
Se lamentar augelli, o verdi fronde
Mover soavemente a l’aura estiva,
O roco mormorar di lucid'onde
S’ode d’una fiorita e fresca riva,
Là v’io seggia d’amor pensoso e scriva;
Lei che ’l Ciel ne mostrò, terra n’asconde,
Veggio, ed odo, ed intendo ch’ancor viva
Di sí lontano a’ sospir’ miei risponde.
Deh! perché innanzi ’l tempo ti consume?
(Mi dice con pietate); a che pur versi
Da gli occhi tristi un doloroso fiume?
Di me non pianger tu: ch'e' miei dí fersi
Morendo eterni; e nell’interno lume,
Quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi.
”Per ben conoscere se il Petrarca come poeta innamorato cantò dirittamente in si fatti versi, panni che sia bene cominciare di qui. Hassi, o Signori, per costante, che Amore sia desiderio di bellezza, ma questo si fatto desiderio non può divenir Amore senza l'aiuto della speranza che prende un'anima di goderla: ma se veduta una cosa bella, vaga di possederla, pareggiatasi seco, spera di farla sua e poterla godere, allora il sì fittamente desideroso, è e puossi appellire innamorato. E perchè io favello di Amore, per intender i consigli di poeta innamorato io confermerò i miei detti pure con l'autorità de'poeti.
”Non credo che si legga Amore più famosamente cantato di quello Medea, e di quello di Didone; e certamente Apollonio Rodiano dice, che io Coleo, nel palagio di Aela a maraviglia splendeva Giasone di bellezza, e che Medea, nascostamente guardamolo, infiaminavvasi e usciva di sè medesima. Virgilio canta, che alla presenza di Didone, Enea apparve di persona e di faccia sembiante agli Dei: cotanto Venere sua madre avea compartito di bellezza alle chiome, e allo splendore degli occhi! Ecco come due chiarissimi poeti, rappresentando lo innamorati di due reine celebratissime, ne danno cagione alla bellezza. Per quanto pertiene alla speranza, dice Virgilio che Anna, favellando a Didone, diede con sue ragioni speranza alla mente dubbiosa, la quale era tra due; di che ella prese risoluzione di amorosamente trattare quello straniero e pregiato barone. Spemque dedit dubine menti, sono le parole del gran poeta in quel luogo. Condotto a questo termine l’affetto amoroso dal desiderio e dalla speranza, egli sale al colmo, e divien perfetto per la forza di un perpetuo pensamento, il quale sempre girasi intorno alla bellezza desiderata. Questo fisso pensamento, non mai discompagnato dall'amante, appo Virgilio, ha nome cura:
At regina gravi jamdumtum sancia cura.
Leggiamo nel principio del quarto ed altrove:
Non licuit thalomi expertem sine crimine vitam
Degere more ferae, tales nec tangere curas.
Ed altrove:
At non infelix animi Phoenissa nec unquam
Solvitur in sommos oculis, aut pectora noctem
Accipit
E dando ragioni di si grave vigilia, egli soggiugne: Ingeminuant curae.
”Or per tal guisa vinta, l’anima amante sbandisce da sè tutte le altre rimembranze, e alla disiata bellezza rivalgosi con tutta sua forza perpetuamente. Non mi lascia mentire Teocrito, il quale fa dire a contadinella innamorata, che tuttoché il pelago tacesse e tacessero i boschi, non taceva il suo cordoglio, ma distruggerla un fuoco per colui che lei dispregiava. Lasciasi chiaramente intendere Apollonio Rodiano, il quale canta, che Medea arsa per la bellezza di Giasone non prendeva sonno per la notte profonda, tuttoché anco una madre soglia chiudere gli occhi dolenti sopra i cari figliuoli sepolti. E se pure infievolita dagli affanni un’anima innamorata si lascia in possanza del sonno, non sapere lutto questo partirsi, e non si diparte, sognando, dalle sue cure. Narra Omero, che stanco Achille per la caccia data ad Ettore, al fine chiuse le palpebre, ed allora Patroclo gli si fece vedere con quegli occhi splendidi, con quelle vesti usate, e con quella usata sua voce, nè solamente gli apparve, ma seco fece querela e seco tenue un breve ragionamento. Né tace Virgilio di questa passione sì grande, ma ci racconta che Didone vagheggiava e udiva Enea, quantunque gli fosse lontano. Dice, ch’ella ripensava ad ogni ora sopra la fortezza di quel cavaliere, e sopra la nobiltà, che nel petto le erano impresse lo sembianze e le parole di lui, afferma maravigliando, che in obblio erano poste le torri, nè si provvedeva alle armi, e i porti e le muraglie rimanevano addietro:
Pendent opera interrupta, minaque
Murorum ingentes, acquatuque machina Coelo
Nè e da maravigliare di ciò, perchè l'anima innamorata non è vaga di vile o di popolaresca cosa, anzi è bramosa della bellezza, la quale, secondo l'opinione di grandissimi uomini, è uno splendore di Dio. Ma, per non salire tant'alto, contentiamoci di dire, ch'ella nasce da buona proporzione delle parti fra loro, e si fatta proporzione delle parti fra loro, e si fatta proporzione non può, salvo dall'umana ragione, essere compresa. È dunque dirittamente fortissimo il desiderio della bellezza nell'uomo, poich'ella è solamente acconcia ad essere dagli uomini conosciuta: sì fattamente dissero i poeti, i quali rappresentavano le altrui passioni ne’ loro versi, ed a loro è diritto prestar fede essendo di tanto alto intelletto, ma non pertanto maggior credenza dee darsi a quei poeti i quali, non le altrui, ma le proprie sofferenze hanno posto sotto le nostre orecchie. E tra costoro luogo per certo non negherassi al Petrarca, per alcuni tempi della vita infiammalo e riarso d’amore. Dunque, che dice egli di sè medesimo? Che provava come lo trattavano i suoi pensieri. Certamente non era abbandonato dalla cura amorosa, anzi vie si selvagge non sapeva trovare che sempre Amore non andasse seco ragionando, e perché i peregrini talora posassero e posassero i naviganti e gli aratori e anco gli armenti, non però a lui si toglievano i suoi pensamenti giammai, anzi di sè medesimo maravigliandosi, afferma ch'era stanco di pensare siccome i suoi pensieri non si stancassero in Laura. Sè debbo dimenticarmi, ch’egli lasciò scritto: Che perchè mirasse mille cose fiso e attento, nondimeno solo una donna mirava, e'l suo viso. E però, scogendo il mondo su la Primavera, rimembrava di Laura, come di giovanotta, scorgendolo su l'Estate rimembravasane come di donna si avanzasse negli anni, scorgendo l’Autunno rimembravasene come di donna su’ suoi perfetti giorni. Che più? Se guardava talora levarsi il sole, vedea il lume di Laura apparire, se tramontarlo, vedovalo dipartire. E per non fare lungo ragionamento, egli canta, che nell'acqua chiara e nell'erba fresca, e ne' tronchi degli alberi, e delle nuvole la vagheggiava.
”Ecco alle Signorie Vostre ritratto Amore per le parole del Petrarca (uomo ottimamente esperto delle sue qualità), non diversamente da quello che Virgilio, ed altri poeti ce lo ritraessero, ed una cosa voglio soggiugnere, ed è: Che se per forza d’amore il Petrarca e da vicino e da lontano in ogni cosa vedeva la donna desiderata, benché veramente non la vedesse, non dee strano parere, che più per forza d’amore non udendola la udisse, e che nelle straniere voci egli ascoltasse la voce di lei. Non può, dico, strano parere, non certamente: e che? non è tanta la forza d’amore sopra le orecchie quanta sopra gli occhi degl’innamorati? Né sia che si faccia all’incontro, e dica: Questi pensamenti si fanno, ed è ragione che si credano di un amante mentre la desiderata bellezza dimorò nel mondo fra gli uomini, ma, tolta di questa vita, ma spenta, non è da darsi ad intendere che più se ne tormenti l’anima e segua le vaghezze sue, quasi vaneggiandone, forsennata. Io, o signore, non sono in scuola di filosofanti, discorro piacevolmente con intelletti non meno sublimi che gentili, e spongo i versi di un amoroso poeta, e però rispondo, e la mia risposta si appoggi alla gran fama di Virgilio. Egli nel sesto libro, trascorrendo le regioni ove i trapassati di vita fanno soggiorno, e ritrovati coloro Quos durus amor crudelitate peredit, soggiugne: Curae, non in ipsa morte relinquuni. Qui dico argomentando: Se si accetta che una tra' morti mantenga la passione sostenuta per un vivo, perchè un vivo non manterrà la passione sostenuta per una morta? Può dunque cantare il Petrarca: Se lamentare ec. Veggio ed odo ed intendo ec. Ma che udiva e che intendeva di lei? Egli dice, che intendeva le risposte ch'ella faceva a’ suoi sospiri. Cerchiamo dunque di che fossero i sospiri del Petrarca, e quindi intenderemo come fatte fossero le risposte di Laura.
”Di che sospirava il Petrarca? E di che, o sigori, dee sospirare l’innamorato a cui sia la donna amala venuta meno per morte? Senza dubbio il Petrarca nelle sue rime duolsi per lo danno fatto a lui, e per lo torlo fatto a Laura: i suoi danni erano gravi, sì perchè in un punto privossi di tutte le dolcezze che per lo spazio di venti anni avea per varie maniere raccolte dalla bellezza di Laura, sì non meno perché Laura gli si tolse in su quel tempo quando, menomando la gioventù, a lui promettevasi vita più domestica e compagnia di lei più familiare. E veramente, signori, era gran danno perdere una donna di cui traevi infiniti conforti, ma maggiore fu perderla in tutta stagione quando più grandi e più desiderati dovea goderli. Questa acerbità di stato mise tanto cordoglio nel Petrarca ch'egli divenne un animale silvestre, che quautó vedeva e quanto ascoltava eragli noia, quasi tanto caricato di pena, che non zefiri, non fiori, non usignuoli lo consolavano punto, né perché ridessero i prati o si serenasse il cielo, o si rallegralo Giove, egli si rallegrava giammai. Di lauta disavventura afflitto, sospirava il Petrarca, e disuoi sì fatti sospiri Laura risponde. Ma, o signori, risponde per modo che quasi non fa, salvo biasimarlo, siccome di sospiri senza cagione formati, e come non degni della ragione d’un uomo:
Perchè innanzi tempo ti consume?
A che pur versi
Da gli occhi tristi un doloroso fiume?
Cosi die’ella, e pare che non voglia, salvo col condennarlo, risvegliare il suo intelletto. E per vero dire: Ov’é ito l'intelletto del Petrarca? Uomo oltre i cinquantanni di sua vita, ammirava che si morisse? era sì nuova in quel tempo la usanza del seppellire? tanto avea studiato, eri era ignorante della fragilità della vita ? O, durando Laura, egli maggiori avrebbe raccolti i contorti amorosi? Dunque doveasi a lui privilegio di godere perfettamente? Questa lena, che per ciascuno è regione di pianto, dovea per lui tornare in regno di gioia?
”Forse, direte, poteva scusarsi del sospirare, e affermare che non per sè, ma per Laura spandeva sospiri, cioè, ch’ella innanzi tempo era tornata nel suo paese e alla par sua stella; ch’ella s’era perduta
Ne l'età sua più verde, e più fiorita,
Quando Amor suole avere in noi più forza.
Tutto ciò è vero, ma chi avevalo constituito giudice sopra la misura del vivere umano? — Laura poteva vivere più lungamente. Ed io dico, ch’ella poteva auro morire più tosto. Perchè dunque non dar grazie di ciò che s'era a lui conceduto, anzi che far querela di ciò che gli si toglieva? Vivamente gli si fa sentir Laura, o signori: — Di me non pianger tu.. Chi vede, o Petrarca, uno stroppiato piagnere sopra la ventura d'amico che si risana? Qual nocchiero nella procella s'attrista sopra il diletto navigante che si chiude nei porti? — Di me non pianger tu: vivere non è quello che ne mena a morire, anzi è quello che ne mena a mai sempre durare: a tale stato io trapassando son pervenuta, e però di me, consegnata all'immortalità, non pianger tu, rimasto sotto la falce della morte: il mondo è campo di battaglia, vi si combatte in forse di vincere e di esser vinto, ma qui nel cielo non si mira, salvo trionfi; e però di me, riposta tra le palme della vittoria, non pianger tu, confinato tra i pericoli della guerra. — Di me non pianger tu, che miei dì ec. il sole, onde tanto voi, o mortali, prendete conforto, non tramonta ogni sera? non vi lascia la metà della vita in tenebre? io, all'incontro, godomi un lume, il quale ne sorgere ne sa tramontare; e quando in questo apersi gli occhi, io non gli chiusi a cotesto vostro; fu inganno, feci sembiante, mostrai di chiuderli, ma veramente gli apersi, e perciò di tuo non pianar tu; di me eternamente luminosa, di me fornita d’immensa contentezza, di me finalmente divenuta beata non pianger tu, mio fedele, tu che cotanto mi amasti, tu che ti trasformasti in me perfettamente, di me non pianger tu.
”Qui pareami, o signori, e per ventura può alle Signorie Vostre parere che questa damgella francese voglia troppo altamente governare l'amima del Petrarca, e togliendolo affatto dalle passioni umane, disumanarlo. E quando fu che sopra i cari sepolti non si spendessero lagrime e non si traessero guai? Forse il Petrarca, come poeta, non ben consigliossi appresentendola così severa alla mente de' lettori. Certamente Virgilio volle che Evandro mostrassi grave cordoglio su la morte di Pattante suo figliuolo, e che Anna acerbamente si querelasse alla novella di Didone sua sorella ueciasi. Omero stimò ben fatto, che sopra il corpo di Ettore piagnesser Priamo, Ecuba e Andromaca, e per Patroclo si dolse, non che altri, Achille medesimo.
”Nelle tragedie ninna cosa fassi più spesso, nè con tanto sforzo, come lamentarsi e dimostrami tribolato: forte ragione, o Signori, per verità, ma io m’ingegnerò di rispondere in questa miniera. I poeti avvegnaché sempre rappresentino, non rappresentano sempre ad un modo; alcuna volta ci mettano innanzi gli uomini quali essi sono, ed altra quali essere doverebbono; e ciò fanno secondo i fini che si propongono nelle poesie, e secondo che meglio loro sembra di potorie condurre. Qual uomo verrebbe biasimalo dagli uomini comunali s’egli eleggesse di viversi senz’affanni in una perpetua giovanezza? Certo questa arebbe sembianza d’uomini quali ad ogni ora si veggono. Omero all’incontro cantò, che Ulisse fece rifiuto di questa offerta, e di buon grado si tolse dall’isola di Calipso. Comunemente un uomo non si sporrebbe a morte certissima per vendicare l’amico, ma Achille tuttoché da Tetide dea si facesse certo che giovanetto rimarrebbe ammazzata sul campo di Troia, non restò di dare battaglia ad Ettore; e per questa guisa Omero formò la immagine de’ cavalieri, non quali si vivono, ma quali si doverebbono vivere. Andiamo alle tragedie. Euripide, nella favola intitolata Gli Eraclidi dice, che Macaria sul fiore degli anni si lascia scannare per lo scampo dei giovinetti fratelli; e non si canta di ciò perchè tutto il giorno si faccia, ma perchè dovrebbe farsi. Alceste, appo il medesimo, nella tragedia così chiamata, accetta da sua posta la morte perchè Amego suo marito si conservi in vita. Dunque dichiamo che il Petrarca non tue non instauri la strada del poetare, quantunque finga Laura maestra di tanta severità; anzi gli portossi da buon poeta per due ragioni; una perchè Laura era a manto, l'altra perchè ella si rappresenta beatificata. Chi non ama non si dà pensiero, o Signori; vive e lascia altrui vivere a voglia sua: d'altra parte, Amore è cosa piena di pensamento, ammenda i suoi cari, gli corregge se errano, procaccia ch'essi si avanzino.
”Dice il Petrarca, che ninna madre con tanto affetto non porge consiglio in dubbio stato al figliuolo, nè sposa al consorte, come Laura porgevalo a lui. Ma come beata e come cittadina del Cielo, perchè non dovea caramente riprenderlo delle passioni soverchie? e perché non farlo accorto delle sue dismisure? Senza dubbio dovea Laura ragionare delle cose mondane, siccome di vanità: sì fatte sono, e sì fatte le conosceva; che i Celesti ci sollevano oltre le operazioni umane; e vedesi nei poemi famosi. Nel secondo dell'Eneida leggesi, che nella estrema ruina di Troia, Enea scorse Elena nel tempio di Vesta, e pieno d’ira avventassi per ammazzarla. Venere affacciossegli, e lo frenò, e diceagli: Quid furis? E tutto ciò perchè altri sono i pensieri degli uomini, ed altri quelli degli Dei. Veggiam similmente tale cosa in Omero. Priamo, vecchio abbandonatissimo, piangere la morte di Ettore, e desiderare il suo corpo per seppellirlo. Era in mano di Achille adiratissimo; dovea quel vecchio re partirsi di casa sua, porsi in balia dell'avversai io? Certo no, ma viene Iride mandata da Giove, e dagliene consiglio, e vuole che Priamo faccia azione alla quale comunemente gli uomini non volgono il pensamento. Diremo dunque, che il Petrarca, secondo la mortale condizione, lamentavasi della donna perduta, ma che volendo salire a grado di maggior pregio, egli doveva cessare i suoi lamenti, e che Laura era personaggio attissimo a condurvelo; e però egli fece venirla ad ammonirlo in questo verso: Di me non pianger tu.
”Altamente dunque, o Signori, onorò la sua donna il Petrarca, e per gentile maniera egli ritrasse le imperfezioni di sè medesimo per esprimere la eccellenza di lei. Confessò essere fornito di poco senno acciocchè ella apparisse savissima; e certamente non a torto un sì leggiadro poeta è celebrato e caro tenuto dal mondo. Egli sollevò l’animo degli amanti al colmo de’ leggiadri pensieri, e sempre nei versi suoi dà cagione di virtuosamente pensare, siccome in questo Sonetto puossi comprendere: intorno al quale, riguardando alla materia, ho discorso poco, riguardando alla mia persona, troppo, ma rivolgendo la mente alle Signorie Vostre, abbastanza„.
V. Io sono giunto alla fine; ora che dite voi sopra le cose lettevi?
F. Lealmente io posso dirvi, che le cose e le parole udite hannomi tenuto attentissimo, e che in udendo, la mente mia non s’è punto stancata.
V. Il comprendeva in parte, dal rimirarvi immobile. A me, se io debbo aprire il mio sentimento, pareva di mano in mano sì fatte cose dover essere state nell’intelletto del Petrarca allora ch’egli metteva insieme il Sonetto, e stimo ch’egli non dovesse pentirsi d’averle pensate: cotanto sono acconcie a’ versi che in sè le rinchiudono, e che altrui le spongono e fannole intendere.
F. Ho letto alcune Lezioni intorno a simiglianti poesie, ripiene di somma dottrina, anzi dello Spositore che del Poeta.
V. Allora stanno gli uditori maravigliando della scienza di chi discorre, ma non per certo della eccellenza di chi compose.
F. Vogliamo noi credere, che ella sia scrittura del signor Chiabrera?
F. Ella è di lui certamente, e mi rammento udirla recitare nell’Accademia, la quale qui in Savona si raunava in casa Ambrosio Salinero
F. Or sia con Dio; abbiamo una piacevole Lezione udita, ed in un piacevole luogo, luogo che può bello parere a chiunque apprezza cose altre che le pompose.
V. Se le miserie di questa mal nata guerra non s’interponevano, si vedrebbe oggidì questo riposto alberghetto non così privo d’ogni ornamento.
F. Di che voleva egli adornarlo? Di pitture per avventura?
V. Ha promessa da Bernardo Castello, e da Luciano Borzoni, ambedue eccellenti pittori, ed ambedue suoi diletti compari, ch’essi illustreranno queste muraglie con loro pennelli.
F. Faranno, secondo il verso del Poeta, in poca piazza mirabili cose.
V. Ma il signor Chiabrera non si starà, hammi detto; ch’ei vuole dichiarare sua devozione verso alcuni grandissimi Principi, alla cui memoria rimane obbligato per onori e beneficj singolari.
F. Deono essere i Serenissimi di Toscana.
V. Voi v’apponete — Ferdinando e Cosmo. Ma non meno adora le grazie e l’alta bontà di Urbano Ottavo Pontefice Massimo.
F. Per sì fatti personaggi che pensa egli riporre qui entro?
V. Vuole che si dipingono tre archi; uno in questa faccia della stanza, e in queste due pareti due, i quali si guardino all’incontra. In questi archi, secondo l’antica maniera, In pensato che si leggano alcune parole.
F. Da lui poste insieme?
V. Io nol so.
F. Ma le parole, sapete voi?
V. Solle, e sono queste:
ferdinandvs mag. dvx aetrvriae iii.
arces erexit, classes extrvxit, pratas
afflixit
ad pacis conversvs
praeclara ingenia non despexit.
Per Cosimo dirassi:
cosmo magno dvci aetrvriae iiii.
fidei cvltoris, paci cvstodi, ivstitiae
conservatori
qvod mvsae labantes hilariter exceptae
svnt.
F. Sono gran lodi.
V. Ma la somma è, ch’elle sono vere.
F. E per lo papa?
V.
vrbanvs viii. pont. max.
a svmmo dignitatvm cvlmine
elegantiorvm hominvm vota non respvens
favstis acclamationibvs foelix
favstis acclamationibvs optmvs.
F. Oh molto favorito scoglio! Ma perchè appellato Siracusa?
V. Per la vicina chiesa della Santa, che a patria ebbe quella città.
F. Ottimamente. Ma annottasi; è da moversi, volendo entrar nella terra, perchè i soldati serrano le porte a buon’ora.