Cartesio (Bertocchi)
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DI
UOMINI UTILI E BENEFATTORI DELL’UMANITÀ
DI TUTTI I PAESI
E DI TUTTE LE NAZIONI
Annata 4 N. 1 2 3
Bologna
TIPOGRAFIA MARSIGLI EDITORE
1843.
Non deve recar maraviglia se fra gli uomini, che di sè hanno lasciato gran fama di pubblica utilità, vien messo Cartesio. Gli è vero che rispetto alle cose materiali i filosofi non recano di molti beni, essendo che tali cose non sono da loro; ma sì ne recano di molte e grandi rispetto all’ordine delle cose intellettuali e morali; ed il filosofo, la cui vita voglio toccare, ha, secondo mio avviso, meritato assai degli uomini, avendo con nuovi trovati insegnato loro a pensare: nè altresì alcuni de’ suoi errori non tornarono vani, siccome quelli, che misero per la via di molte e rilevanti verità, chi ebbe la gloria di ben ripensarli.
Renato Cartesio di nobile famiglia, nacque a Lahaye in Turenna il 31 marzo 1596. Egli venne messo nel collegio de la Flêche tenuto dai Gesuiti, a studiarvi matematica e filosofia; nelle quali cose tanto si fe’ innanzi, che diede per tempo a conoscere a qual segno mirasse l’altezza del suo ingegno. Egli in luogo di farsi legge di ogni sentenza di Aristotile, come si soleva usare, vi faceva sopra di molte chiose e comenti; e trovando la logica de’ suoi maestri piena di vani concetti, diedesi a tutt’uomo a trarne il buono, come, secondo che usava dire, lo scultore da un masso informe di marmo trae una Minerva: per le quali cose, quantunque fosse giovane di pochi anni, si accattò il nome di filosofo. Per la sua cagionevole salute gli fu concesso dai Gesuiti di stare in letto fino a tard’ ora, nel qual tempo, coll’animo tutto volto a’ suoi studii, faceva di molte meditazioni, le quali tornarono a bene per la maggior parte de’ suoi trovati.
Uscito di collegio lasciò i libri, perchè trovava in essi errori di convenzione senza più: e mise molto studio a scancellare dalla mente tutto che per la ragione e per l’esperienza non gli si mostrava chiaro e giusto; e, a quanto signori Biot e Feuillet nella loro Biografia universale fanno di lui menzione, sembra che fosse allora che trovasse il metodo dell’esame, e del prudente dubbio, il quale ora si è fatto il principio di ogni nostra conoscenza, la cui utilità noi, siccome fummo nudriti in questa naturale e ragionevole dottrina, non giugneremo mai a conoscere, nè altresì quanto egli a ciò penasse, se non rechiamo alla memoria che quando vivea Cartesio, il sol muover dubbio sui princìpi di Aristotile era sì grande e nuovo ardire, che veniva per poco tenuto quasi un delitto.
Come la nobiltà del suo stato richiedeva, egli in Olanda di suo propri volere, ed a sue spese servì all’onore delle armi sotto il valente Maurizio di Nassau, non mettendo però in non cale le sue meditazioni intorno alle scienze Essendo a guernigione in Breda gli vennero vedute di molte persone, che leggevano un cotale avviso in fiammingo; ma non conoscendo siffatta lingua, richiese piacevolmente uno de’ circostanti a volerglielo spiegare. Questi fu il matematico Bukman, il quale, preso da maraviglia vedendo un militare darsi tanta cura di cosa scientifica, stando in sul grave gli rispose: Quello essere un problema matematico, che (come i tempi portavano) un privato proponeva a suoi compagni di geometria; e glielo spiegò. Cartesio, avuta la risposta, senza metter tempo di mezzo promise al prefato di portargli la soluzione del problema; e tenne fede: perciocchè il dì dopo fu a lui col problema risolto, facendo così conoscere quanto il militare in sui vent’anni sentisse, in fatto di geometria, più innanzi de professore di matematica. Passò poscia al servizio del duca di Baviera, si trovò nel 1620 alla battaglia di Praga, e nel volgere dell’anno 1627 ebbe parte al famoso assedio della Rocella, ove venne in conoscenza di Gherardo Desargues valente geometra, per lo quale ebbe la protezione del Cardinale Richelieu. Siccome era forte nemico dell’ambizione, lasciò la vita militare, e, non richiedendo altro libro che il mondo, prese tutto solo a far diversi viaggi. È voce che essendo egli per mare alla volta di Embden, d’onde volea tornare In Olanda, gli venisse saputo come i marinari aveano congiurato di metterlo a morte, per insignorirsi di tutto il suo avere; del quale pericolo ei seppe campare da valente militare, come Arione in sì fatto caso seppe difendersi da vero musico. Egli mise mano alla spada, con tanto di vigore e fermezza, che quei ribaldi tutti pieni di paura lasciarono tosto il loro reo disegno. Spese ancora alquanti anni a percorrere diverse parti dell’Europa, facendo sempre filosofiche osservazioni, a quel modo appunto che Solone, Talete e i loro emuli visitando la Grecia, l’Asia, e l’Egitto ebbero arricchito la patria loro delle più alte osservazioni sulla teoria, e sulla pratica delle scienze. Se non che quella felice unione, che regnava frai sette saggi della Grecia, non era punto frai dotti dell’Europa. Il nostro viaggiatore fu in Italia, ma non vide Galileo, che poc’anzi avea aperto la vera strada alla filosofia sperimentale; e benchè l’animo di Cartesio fosse libero di qualunque gelosia, pure non conosceva troppo bene il merito di questo grand’uomo.
Come fu di ritorno alla patria sua, volle pubblicare le nuove idee, che gli andavano per la mente; ma conoscendo di non poterlo ivi fare senza incontrar pericoli, vendè parte de’ suoi beni, non si curò della protezione di Richelieu, e si fu ritirato in Olanda nella sua deliziosa possessione di Egmont, vicino all’Aja.
Quivi mise in luce i suoi primi scritti filosofici, che lo levarono in gran fama; ma con essa gli si mosse l’invidia. Alquanti professori delle università di queipaesi, i quali avean l’animo tutto pieno delle opinioni antiche, formarono contro Cartesio una forte cospirazione. Il primo che gli si levò contro fu Gisberto Voët, teologo protestante, e ministro d’Utrecht, avendo a compagno un certo Schoockius, il quale, benchè fosse erudito, era un malvagio uomo. Questi diede in suo nome alla luce una scritta di Voët contra Cartesio, la quale era piena di sole ingiurie, e di fortissimi accuse, infra le quali quelle di Ateismo e di Deismo, che si confutavano reciprocamente.
Eransi i congiurati dati a credere che per la lontananza non verrebbe a Cartesio saputo parola alcuna di tutto che gli si macchinava contro nel tribunale di Utrecht, cui pur non sarebbe comparso alle citazioni e così avrebbe avuto tal condanna, da non potersi mostrare ove che sia. Voët, che in astuzia vincea ogni altro, acciocchè tutto avvenisse a questo intendimento, oprò con tal segretezza che gli scritti del filosofo furono dichiarati infami, e la condanna era stampata, e per poco pubblicata per tutte le città delle provincie unite; allora che a Cartesio vennero due lettere anonime a metterlo in chiaro del pericolo, che gli sovrastava. Egli non sapeva indursi a dar fede a tanta malvagità, pure si condusse all’Aja, ove da tutti seppe ciò, che egli solo in Olanda ignorava. Il suo arrivo improvviso, e la fermezza colla quale si presentò a’ suoi nemici, implorando la protezione del duca d’Orange, e dell’ambasciatore di Francia, guastarono tutti i disegni de’ nemici suoi, e non gli tornò malagevole il purgarsi di tutte le accuse, facendo conoscere come le atroci scritte pubblicate a suo danno erano di Voët: e messa in gran lume la mala vita di costui, lo coprì d vergogna, e si fu contentato di aver così posto in salvo l’onor suo.
Non molto dopo diede fuori la sua grand’opera sul sistema dell’universo, non vi avea migliore, nè più nobil modo per vendicarsi di tutti i suoi nemici; se non che egli ben presto si addiede come la parte metafisica delle sue opere gli era cagione di nuove liti, e le scoperte geometriche non erano conosciute, né avute in conto che da sì poco numero di persone, da non trarne pure un compenso; di che ebbe a richiamarsi della sua celebrità. Siccome desiderava fortemente le dolcezze di una vita oscura, così usava sovente di dire: Qui bene latuit, bene vixit. Nell’anno 1654 il Cardinale Mazarino gli fece dare una pensione di ben tre mila lire. L’anno seguente si condusse in Francia, la quale fu sempre innocente delle ingiuste guerre che altri gli avea rotto, ed ivi fu accolto con gioia, e venne onorato di un rescritto in cui, dopo molte parole che lo levavano a cielo, gli si concedeva ragguardevole pensione; ma egli, fatte quelle spese che per cotali onorificenze si dovevano, non ne usò punto; di che solea dire: «Non mai mi venne fatto di pagare a sì alto prezzo una carta!
In Francia non tenne lunga dimora; «Io conosco, scriveva, che mi volevano in Francia quasi come i grandi signori vogliono avere nel loro serraglio un elefante, un leone o tutt’altro animale non meno raro». Ma sì fatte parole teneano dello scherzo anzi che no, poichè tutti l’aveano in grande venerazione e la novità delle ipotesi sue, la grandezza e l’ardimento de’ pensamenti, la chiarezza delle sue idee aveano attirato l’attenzione dei più sublimi e liberi spiriti del secolo di Luigi XVI. Bossuet, Fénélon, La Fontaine, Malebranche e l’Oratoire, Pascal e Port Royal erano lieti di tenere le sue dottrine, o almeno i suoi metodi.
Ritornato nella sua dolce solitudine d’Egmont il nostro filosofo si tenea libero di ogni altra persecuzione; ma egli non fu vero. Alquanti teologi riformati di Leida lo tormentarono sì fieramente, che gli fecero tornar grave la sua celebrità. Faceva già di molti anni che Cristina di Svezia confortava Cartesio a venire ne’ suoi stati, quand’egli si recò a farla contenta di sè stesso, e, lasciandosi addietro un luogo che mal pativa ogni maniera di tolleranza, si dispose a sostenere il rigido clima della Svezia. La Regina lo accolse con grandissima stima, di che allibirono tutti i persecutori del filosofo, ma conoscendo com’ egli non si sarebbe mai acconciato agli obblighi dei cortigiani, si contentò di averlo a sè un’ ora del giorno per essere istruita su quello che più le piaceva. Il rigoroso inverno, il doversi ogni mattina levare alle cinque per andare alla Regina, fu per Cartesio, uomo cagionevole ed uso al riposo ed al sonno, sì dura cosa da non poterla portare: per che venne preso da forte malattia di petto, cui essendone la Regina cagione, la tenne celata ai medici di colà, ai quali diceva: «Non siate larghi del sangue francese». Nulla di meno nell’ottavo giorno si lasciò levar sangue, ma tutto allora era niente, tal era l’infiammazione, che ogni rimedio tornò scarso. Non ancora avea tocco il cinquantesimo quarto anno dell’età sua, quando il giorno undecimo di febbraio 1650 infra le braccia di Chanut ambasciatore francese, passò dalla presente vita.
Cristina volle seppellirlo allato ai re di Svezia, ma l’ambasciatore di Francia, per motivi di religione, chiese ed ottenne che fosse messo in un cimitero di Cattolici. Le ceneri di chi per tanto tempo avea viaggiato, non trovarono pure riposo; chè in capo a 16 anni vennero trasportate in Francia, e con solennità deposte nella chiesa di santa Genevieffa di Parigi, e nel 1793 trasmutate al museo degli Agostiniani, e finalmente nel 1819 poste in una cappella di santo Stefano del Monte, ove sono ancora.
Cartesio non tenne mai quel sembiante tra superbo e maligno, che usavano di quei giorni i dotti: virtù rara assai; ma avea del militare, del civile, e ad un’ora stessa del filosofo. Egli dolce, umano, compiacente con ogni maniera di persone: e di lui trovasi scritto che un suo servo volendogli rendere le debite grazie di un servigio ricevuto, nol sostenne punto; anzi gli ruppe le parole dicendogli, che tutti uomini erano uguali, e che soddisfaceva ad un suo debito. Dei molti nemici ch’egli ebbe non si diede cura di vendicarsi, altrochè coll’averli a vile; e costumava di andar dicendo, che quando veniva offeso alzava l’animo sì, che l’ingiuria non pervenisse a lui. L’uso di meditare e di vivere ritirato l’avea fatto alquanto taciturno, non però tanto, che venisse scemata la piacevolezza, che avea sortito dalla natura.
Cartesio ragionò della morale. Alla sua vita erano norma queste quattro massime: 1.o Obbedire in ogni cosa alla religione ed alle giuste leggi del paese suo. 2.o Non legare giammai la sua libertà per l’avvenire. 3.o Tener sempre il mezzo in tutte cose, perciocchè ogni estremo suol esser vizioso. 4.o Adoperarsi al possibile a vincere anzi sè, che la ventura, perchè i nostri desidéri, e non l’armonia del mondo dipende dal nostro senno, e perchè nulla è più nostro dei nostri pensieri. Se tale filosofo non ci avesse lasciato che questi princìpi sì alti, e tutti pieni di verità, non avrebbe egli meritato assai degli uomini? Egli non vi ha certo miglior modello a proporre per farne ritratto di un filosofo convinto che le sue meditazioni, e la sua scienza non lo sciolgono dagli obblighi i quali stringono ogni uomo.
La matematica sa grado a Cartesio di molti trovati l’ingegnoso metodo dei coeficenti indeterminati, la teoria delle equazioni algebriche, il principio fondamentale della diottrica, e sopra più l’applicazione dell’algebra alla geometria. Come metafisico egli ha ragione alla riconoscenza degli uomini per essersi adoperato a scuotere il giogo, cui da sì lungo tempo inchinava l’umano pensiero. Il discorso del metodo di ben condurre la ragione, e trovare nelle scienze la verità è diviso in sei parti: 1.o Considerazioni sulle scienze. 2.o Le regole principali del metodo. 3.o Le regole della morale. 4.o Le prove dell’esistenza di Dio e dell’anima. 5.o L’ordine delle quistioni di fisica esaminate dall’autore. 6.o Il come sentire più avanti nella conoscenza della natura. La base di tutto questo libro si è il famoso assioma: Io penso, dunque io sono.
La Diottrica di Cartesio tratta della luce rifratta. Pubblicò altresì una Meteorologia, scienza male conosciuta fino a’ nostri dì; e poi una Geometria. Quivi nè un’ombra pure d’errore. Quest’opera come che non risplenda di troppo ordine, pure è ricca di utili trovati, infra i quali l’applicazione dell’algebra ai problemi indeterminati, ed alla teoria delle curve. Pose alla luce sei meditazioni metafisiche, nelle quali egli mostra l’esistenza di Dio, e l’immortalità dell’anima. Queste scrisse in latino: Perchè, dice nella prefazione, il cammino per cui mi son messo è sì poco conosciuto, e sì fuori della strada comune, che ho creduto non doverlo mostrare in francese, e per un discorso, che tutti potessero leggere: e così gli spiriti deboli non crederanno sia lor permesso di tenere questa via.
Non possiamo por miglior fine a quest’istoria che col far sapere, che il nostro filosofo fu sì amico dell’umanità, che seppe trionfare di tutti i pregiudizi filosofici.
Cesare Valentino Bertocchi tradusse